Lampedusa, Agrigento (NEV), 15 luglio 2015 – Quest’isola è fatta di storie. Storie di chi vive su questo scoglio perché lampedusano da generazioni o perché qui ha deciso di trasferirsi. Storie di chi transita per qualche periodo e storie di chi vi approda e riparte. Alcune storie sono più facili da raccontare e si ha l’onore di sentirle direttamente dai loro custodi. Altre storie rimangono come sospese, nel ricordo di pochi o tra le onde del mare.
Vorremmo dare voce a chi ne ha di meno e a chi avrebbe il diritto di raccontare. Ma non sempre è possibile. Le puoi intuire dagli sguardi, dai sorrisi di gioia di chi arriva qui salvo, da quei tanti grazie che ti vengono rivolti per il solo fatto di aver messo piede nella Fortezza Europa. Quello che riusciamo a fare è dare voce ad altre persone su quest’isola, che però ci concedono di scorgere anche le storie di chi ci è negato. Lillo Maggiore ha gli occhi sinceri, profondi e luccicanti come le cale più belle di Lampedusa. È un lampedusano appassionato e generoso, pieno di energia e voglia di condividere quello che da questo scoglio ha imparato. Ha una famiglia numerosa, una moglie, altrettanto energica, e tanti figli e figlie. Non solo quelle che lui definisce “naturali” ma anche quelli che hanno arricchito la loro vita. Dall’anno scorso hanno in affidamento, come ci racconta Lillo, “un ragazzo minore straniero non accompagnato arrivato sulle nostre coste, affidamento che non è avvenuto facilmente tramite le istituzioni ma grazie all’aiuto di ‘Ai Bi’, l’associazione amici dei bambini”. Lillo ci racconta come negli anni la loro sia sempre stata “la casa dell’accoglienza”, fin dal 2011 quando durante la Primavera araba accolsero il primo ragazzo tunisino che oggi vive a Nizza. Poi ci fu la tragedia del 3 ottobre 2013 e per quattro mesi due ragazzi, Tami e Alex, passavano le giornate con loro, e oggi, dice Lillo, “noi li consideriamo due figli che abbiamo lontani, perché uno vive in Norvegia e l’altro in Olanda. Ci rendono felici, siamo felici per loro perché sappiamo che stanno bene, sia lo stato della Norvegia che dell’Olanda li hanno accolti, gli danno un sussidio, frequentano la scuola e hanno un alloggio”. Mentre mi mostrano le foto dei due ragazzi, Lillo continua il suo racconto: “il primo ricordo di Tami e Alex non è un bel ricordo. Alex era in via Roma seduto su uno scalino con le lacrime agli occhi. Io non sapevo che era un ragazzo scampato al naufragio, mi sono avvicinato per chiedergli come stava e mi ha raccontato la sua storia. Da lì il mio cuore si è aperto, me lo sono abbracciato, l’ho portato a casa e il giorno dopo è venuto con Tami e da quando sono entrati in questa casa non si sono più allontanati dalla nostra famiglia che è diventata anche la loro.” Tante sono le emozioni che Lillo trasmette con le sue parole, per tutte le volte che Tami chiama di giorno e Alex invece ha il “vizio” di farlo di notte, svegliandoli e chiedendo di parlare con “mamà, mamà”. Ridono mentre lo raccontano, come quando, dice la figlia più grande, “una sera Tami mi ha contattata su facebook, noi ancora non ci conoscevamo, e si presenta: “ciao, sono Tami Maggiore, sai mio papà dov’è?”. Con commozione Lillo ci racconta di avere sentito Tami, una sera, parlare con la sorella, sposata con un ragazzo italiano, e dirle che lui aveva perso un papà ma a Lampedusa ne aveva trovato un altro. “Ricordi che senti dentro e non andranno mai via” – dice Lillo. Ragazzi che sono persone, hanno un nome e una storia. Tutta questa passione Lillo ha cercato di metterla a disposizione, da un anno è diventato volontario della Croce Rossa Italiana, assegnato all’area dei diritti umani e diritto internazionale. Con altri è presente al molo quando i ragazzi arrivano e dentro di lui si smuovono sempre moltissimi ricordi ma anche frustrazioni. Ci racconta: “mi fa stare male non poter più incontrare i ragazzi che arrivano e poi stanno al Centro di accoglienza. Vederli arrivare in condizioni pessime, scalzi, bagnati, e poi non poterli incontrare per parlare con loro, per imparare insieme qualche parola di italiano per quando andranno via. Vorrei avere la possibilità di passare del tempo con loro, scherzare, giocare a calcio insieme, con tutti quei ragazzi che chiamiamo migranti, che poi sono profughi delle nostre guerre. Vorrei non farli sentire prigionieri, ma liberi di comunicare con la comunità lampedusana”. Da qualche anno, con il sistema di accoglienza che conosciamo, è sempre più difficile incontrare i ragazzi che arrivano, imponendo alla popolazione un luogo chiuso e di separazione. Lillo, come molti altri cittadini e come gli stessi ragazzi, soffre questi muri invalicabili perché, come ci dice, “avere la possibilità di costruire una relazione con i ragazzi ci ha fatto crescere, ci ha fatto capire il senso di cosa sia la povertà, la mancanza di libertà. Ci ha fatto conoscere e maturare tantissimo. Ci ha fatto capire che se dai una mano e puoi arrivare a dare l’altra, lo devi fare. Secondo noi è sempre troppo poco quello che facciamo”. E continua “l’incontro ci ha fatto capire cosa significhi scappare da un paese di guerra, di dittatura, per raggiungere un paese democratico. Non si può morire dal freddo, in mare, perché viaggi su un barcone fatiscente. Non deve succedere e non capisco perché si impedisca all’essere umano di spostarsi.” Queste non sono persone straordinarie, non sono eroi, sono persone come tante altre. Persone che sanno aprire le loro case, i loro cuori, capaci di condividere quello che hanno, non persone “buoniste” ma persone che si lasciano trasformare dall’incontro profondo con un’umanità in cammino. Tutte le contraddizioni emergono con forza da queste storie. Quanto siamo bravi a costruire muri e confini, a mettere tra “noi” e “loro” deserti, mari, prigioni e violenza. E quanto per fortuna ci sono persone che perseverano nel voler costruire corridoi, ponti, valichi, spazi di familiarità, affetto, umanità e dignità.