La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). O dalle volontarie e dai volontari che accompagnano per periodi più o meno lunghi il percorso di MH. Questa volta “Lo sguardo” proviene da Lampedusa ed è stato scritto dalla volontaria Francesca Saccomandi
Da quasi sei mesi presenzio alle operazioni di sbarco a Lampedusa. Ho visto approdare persone di nazionalità, genere e culture diverse, e accatastarsi all’inizio del molo barche su barche. Partono da località tunisine o libiche, e se con un aereo anche piccolo si tratta di un’ora e mezza di distanza, le navi in soccorso navigano ore per raggiungere chi ha bisogno di soccorso. Non che volando sia semplice localizzarle: un buon binocolo e ottima capacità di osservazione sono necessarie, quando non c’è foschia. Non si scherza con il mare.
Non sono stata la prima e non sarò l’ultima della ‘società civile’ presente sul molo – prima, con e dopo di me esiste un gruppo di persone molto ampio. Per quello che ho visto e vissuto, considero la presenza della cosiddetta ‘società civile’ al molo Favaloro un tentativo di ‘restare a contatto con il problema’.
Lampedusa, Italia, Europa. Ogni volta che il tempo lo permette migliaia di persone approdano sull’isola, affrontando un viaggio molto pericoloso. Pure se scampano i respingimenti e i naufragi, non sempre queste persone arrivano vive. In sette sono morti di freddo la notte del 25 gennaio.
Ecco qua, come uno schiaffo in faccia. Chiari, semplici e lampanti: fatti. Ho visto tanti fatti in questi mesi, e ho incontrato tante persone che ne hanno visti e vissuti molti altri. Ripercorro un po’ a tentoni questa serie di fatti e la guardo che si trasforma in storia, fatta di problemi, strategie, domande, approcci, risposte. È una storia piena di sfumature, carica di rabbia e disperazione. E questa storia bisogna raccontarla e farla.
Ho passato giorni e notti a versare acqua, raccogliere plastica, ‘sbucciare’ le coperte termiche per facilitarne l’estrazione. Ho bollito litri di tè e ci ho sciolto dentro chili di zucchero, cannella, chiodi di garofano. Tutto semplice, come dovrebbe essere il nostro ruolo, volontarie e volontari che danno il benvenuto. La nostra presenza e il nostro materiale, tuttavia, sono spesso stati fondamentali per soccorrere le persone arrivate. Abbiamo strofinato la coperta termica contro la pelle di persone semisvenute. Le abbiamo fatte rinvenire con tè caldo alla cannella e ai chiodi di garofano. Abbiamo pianto la morte di persone che non abbiamo mai conosciuto in vita.
Stare a contatto con il problema lo rende chiaro.
Non ha senso piangere la morte di persone senza cercare di recuperarne i corpi. Corone di fiori e auguri di pace non hanno significato se non si offrono adeguate cure mediche e dignità a chi ha vivo ha toccato questa sponda del mare. Ricorderò tutto questo finché sono viva, e con questo ricordo terrò vivi i piccoli e grandi progetti, le soluzioni ipotizzate e discusse, i pianti e la frustrazione di chi condivide con me questa testimonianza. Compagne e compagni con i quali ricostruire i ricordi e formulare pensieri, tenere gli occhi aperti e le orecchie tese, esprimere la rabbia e darle indicazioni utili, prendersi cura di noi e di tutto il resto.
Non mi interessa la riconciliazione, mi interessa il recupero parziale che ci permette di andare avanti insieme. Ci sono tantissime cose che si possono e si devono fare, qui e ora. Pensiamole facendo, facciamole pensando. L’importante è restarci a contatto.