La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). O dalle volontarie e dai volontari che ci accompagnano per periodi più o meno lunghi. Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Lampedusa ed è stato scritto da Francesca Saccomandi
Molo Favaloro. Non riesco a ricordarmi da quanto tempo è tramontato il sole. Ho già versato vari bicchieri d’acqua e ‘sbucciato’ molte confezioni di plastica, per rendere le coperte termiche estraibili velocemente. Stiamo aspettando i pulmini che trasferiscano le persone arrivate all’hotspot. Quando va tutto bene non si attende poi molto, ma basta che sia la giornata in cui attraccano le navi quarantena per trasformare i minuti in ore.
Tiro fuori dalla tasca un gessetto, lo impugno tra il pollice e l’indice. Mi accovaccio per terra, e traccio un cerchio. Lo circondo di linee irregolari per trasformarlo in sole, e quando sono soddisfatta faccio qualche passo indietro, a mo’ di ranocchia. Alzo lo sguardo, infine, e lo dirigo verso Y. e A., la bambina e il bambino che mi sono accanto. I loro occhi mi hanno seguito fin dal principio. Lui mi sorride e batte le mani, lei si stringe più forte alle gambe della mamma, corrucciata. Spezzo il gessetto in due e offro un pezzo al marmocchio, che lo prende volentieri. L’altro lo appoggio poco lontano, lasciandolo alla libera disponibilità della piccola, che non cambia espressione. Mi giro di nuovo verso suo fratello, che si è già messo all’opera. C’è un nuovo sole accanto al mio, con i raggi più corti e il cerchio più grande. È così che ha inizia il nostro gioco: per imitazione. Io intreccio dei rami fioriti attorno ai nostri soli, lui li riproduce poco distante. Poi una lumaca, un bambino, un girasole, un gatto che dorme e uno che si stira. Lui ormai ride, e si interrompe solo per invitare sua sorella ad aggiungersi a noi. Le sue parole hanno più presa dei miei gesti, e riesce a convincerla. È così piccola che non si deve nemmeno chinare per arrivare a terra, e con il suo gessetto fa danzare linee ingarbugliate sul cemento. Non perde il broncio, ma è assorta nella creazione al punto che sua madre riesce finalmente a staccarsi da lei, e a sedersi sugli scalini a qualche passo di distanza. Tira un sospiro di sollievo e si abbandona con la schiena all’indietro, senza comunque staccare lo sguardo dai suoi marmocchi. Quanta fatica. La rabbia mi risale su come un pranzo mal digerito: la ricaccio indietro, poi torno a costellare il cemento dei miei scarabocchi.
I disegni si espandono rapidamente sul cemento, conquistandone una buona porzione. Chi passa quasi incespica, e inizia a guardare dove mette i piedi: qualcuno fa lo slalom per non calpestarli. Distraggono le persone che Frontex sta interrogando, fanno sorridere tuttə. L’unica che non sorride è la piccina. Viene esortata a farlo, ma non molla – e non vedo perché dovrebbe. Oggi o domani, tra un anno o tra dieci, vorrei non venisse mai costretta a sorridere.
Non stiamo disegnando perché fa tenerezza, non stiamo nemmeno tentando di abbellire il molo, che continua a fare schifo. Stiamo giocando ad un gioco molto serio: comunicare. Ci scambiamo linee e le mischiamo sulla stessa tela di cemento. Linee arrabbiate, allegre, tremanti. Linee spezzate, linee dritte. Spirali e zig zag. Palloni, foglie, lune e fenicotteri. Fin quando ci va, solo se ci va.
Y. è molto concentrato a tracciare due linee ondulate. Ci aggiungo altre linee più sotto, con il blu. Quando il mare è finito, passa alla barca, un trapezio sospeso a qualche centimetro dalle onde. ‘Le bateau’? Chiedo. ‘Le bateau dans la mer’ conferma, e poi mi indica l’imbarcazione che lo ha portato fin qui, accatastata con le altre alle altre all’inizio del molo, nuovo corpo del reato da smaltire. Mi domando come è stato, come si è sentito durante la traversata. Non parliamo francese abbastanza per intavolare una discussione simile, e mi faccio bastare quello che mi ha appena raccontato.
Le bateau.
Dans la mer.