Alla luce di una candela

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici, dalle volontarie e dai volontari, di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Beirut, in Libano, è stato scritto da Marta Barabino e racconta le storie di alcune persone curate grazie al nostro progetto Medical Hope.


Roma (NEV), 4 giugno 2024 – “The patient stopped the therapy due to economical reasons”, non so quante volte lo abbiamo scritto nelle cartelle dei pazienti che seguiamo. È una delle ragioni più frequenti per le quali le persone smettono di curarsi, e rinunciano con rassegnazione e prendersi cura di sé, pur sapendo che questo nuocerà alla loro salute, che li sballotterà da un’organizzazione all’altra in cerca di supporto, da un ospedale all’altro senza riuscire effettivamente a risolvere il problema. Ma qui, in Libano, funziona così, se non hai soldi e il tuo piano terapeutico è costoso, non ti resta che sperare che qualcuno lo paghi per te, altrimenti prendi le medicine finché ci sono, e poi smetti quando finiscono è semplice, almeno quanto è spiazzante.

M. è stato in prigione per tre anni per un errore di omonimia. E dopo tre anni di torture l’hanno liberato perché si sono accorti dell’errore. E a quel punto aveva perso la gamba – e la salute mentale. Ha 29 anni M., siriano, che ci racconta con una calma disarmante la sua storia e che due mesi fa ha provato a suicidarsi, buttandosi in mare in uno dei famosi luoghi panoramici di Beirut. Si stringe le mani una nell’altra, passa lo sguardo dai miei occhi a quelli dei miei colleghi, lo sguardo è fermo, non vuoto, ha la stessa attitudine di quando si sta dando un esame all’università. Risponde a tutte le domande, interrompe, riprende la parola. Ogni tanto scappa anche un sorriso.

Last suicide attempt was yesterday” e oggi è qui, e ce lo racconta così.

K. ha 27 anni, ora pesa 50 kg, nell’ultimo mese ne ha persi 7. Ha un tumore al cervello che lo sta asciugando lentamente. La sua voce trema ogni tanto, i suoi occhi scuri sono stanchi, tiene le labbra appena appena aperte mentre risponde con consapevolezza alle domande che gli facciamo. Ci ringrazia tante volte alla fine della visita medica con un sorriso stanco, che gli crea sul viso rughe che un ventisettenne non dovrebbe avere. Un sorriso, anche quello, molto consapevole. Affaticato dai cicli di chemio e radioterapia che si sono susseguiti negli ultimi due anni.

Oggi, 16 maggio, si è messo a piangere davanti a noi è la prima volta che succede. Non ha pianto pianto, ma aveva gli occhi pieni di lacrime, e una gli è scesa sulla guancia sinistra. Pensa al suicidio, lo pensa sempre di più. Lo ha detto a UNHCR, che ha bisogno di viaggiare e che vuole suicidarsi. E ci dice con un sorriso che ne ha parlato anche con sua madre, che magari lo faranno insieme, così finisce tutto.

C. ha avuto un incidente d’auto qualche mese fa, sembra uscito da un campo di prigionia. È magrissimo, entrambe le braccia ingessate dai gomiti ai palmi, le dita sporche, consumate. Qualche cicatrice qua e là sulle gambe secche e lunghe. Il naso e le orecchie sporgono su un viso così magro, la testa quasi rasata, gli occhi spalancati in uno sguardo vacuo. Sta seduto, in silenzio, ma può ancora parlare. I parenti dicono che “prima dell’incidente era normale”, ma è stato un mese intubato e ancora adesso le procedure post-operatorie non sono finite. Quando è l’ora di andare si alza con un sospiro, e gli dicono di ringraziarci, come quando lo si dice a un bambino, e lui si apre in un sorriso che gli fa tornare per un momento la scintilla negli occhi, e dice grazie, prima di uscire dalla stanza.

R. era studentessa al liceo quando è scoppiata la guerra in Siria. Tutta la sua famiglia si è rifugiata in Libano non appena ne ha avuto la possibilità. Lei invece è rimasta: sapeva che se fosse partita avrebbe perso tutti gli anni di studi, e avrebbe perso l’occasione di ottenere il suo diploma in tempo, e magari non sarebbe più andata all’università. Così ha stretto i denti, e ha deciso di rimanere. Ci racconta con un lieve sorriso che piangeva spesso, pensando alla sua famiglia lontana, i suoi genitori e le sue sorelle in Libano e lei lì, con uno zio, ancora in Siria. “Ho studiato alla luce di una candela, non so neanche per quanto tempo” e a volte restavamo isolati, era talmente pericoloso che non si poteva uscire di casa per comprare il cibo; quindi, eravamo costretti a mangiare l’erba del prato fuori casa nostra.” “Il mio sogno è sempre stato di studiare farmacia, adesso lavoro e ho un figlio quindi non posso tornare a studiare… ma io l’ho detto a mio marito, se a sessant’anni vinco una borsa di studio, io torno a studiare farmacia, è sempre quello il mio sogno più grande!” e con una risata spazza via la pesantezza delle parole che sono uscite pochi secondi prima dalla sua bocca.

Z. ha 7 anni, è stata operata al rene dopo aver rischiato di morire davanti al pronto soccorso, perché non poteva pagare l’accesso all’ospedale. Non ha accesso ad acqua pulita, a scuola non c’è proprio, l’acqua. Da mesi soffre di infezioni urinarie, a 7 anni. Non si lamenta, sorride e con le labbra sorridono anche gli occhi brillanti color nocciola tra le lentiggini. Indossa un vestitino grigio e delle calze a maglia con i brillantini un po’ sgualcite. Ogni volta che la vediamo, accompagnata dalla mamma, le tocca consolarla. La mamma ci racconta la loro situazione, come le hanno trattate durante un consulto, le si rompe la voce e le si riempiono gli occhi di lacrime mentre racconta. Z. ascolta, sposta lo sguardo da me, alla madre, poi verso il pavimento. Anche lei avrebbe voglia di piangere, è lì lì sul punto di farlo, ma poi ributta tutto indietro e si passa un dito su un occhio accennando un sorriso timido. Mangia una caramella. La prima volta che le abbiamo incontrate la mamma si era messa a piangere, lei si era alzata ed era andata ad abbracciarla per consolarla. Sette anni.

Sono 12 figli in famiglia, Z. è già zia.

A. viene dal Sudan, vive in Libano con la moglie, sulla trentina. Parla con una voce profonda, si sfrega le gambe mentre ci racconta come sta. Dice di essere depresso, e lo dice guardando in basso. Hanno perso un figlio qualche anno fa, doveva essere il primo.

A. Ha passato 125 giorni in prigione in Siria, in una delle peggiori. Ha problemi a camminare, dipende da farmaci oppioidi per non sentire dolore a ginocchio e caviglia. Ha visto un mucchio di dottori e ognuno gli ha prescritto cose diverse; quindi, gira con un sacchetto di plastica pieno di medicinali che prende in modo disordinato. Mentre era in Siria un altro prigioniero con lui era un dottore e in modo rudimentale gli ha ricucito le ferite, ci fa vedere le cicatrici. Quando era un bambino ha avuto un incidente a cavallo, in prigione quando hanno scoperto che la ferita non era guarita bene dall’infanzia, si sono accaniti sul braccio destro, di cui ha perso parziale mobilità.

Al termine della visita medica, una paziente con depressione e disturbi psicosomatici si gira, appena prima di uscire, e ci chiede, sconsolata: “Quindi tutto il dolore che sento, lo sento perché sono triste?”

L. ha 25 anni. È entrata tremando, la testa incassata nelle spalle, la pelle chiara che sembra più sottile della pelle degli altri, i polsi magri, le dita lunghe e incerte. Non ha smesso un istante di scuotere le gambe, come quando si è in agitazione per un esame, un colloquio, qualcosa di importante. Parla con un filo di voce, muove gli occhi scuri rapidamente, segnati da un po’ occhiaie. Racconta la sua storia, senza emozione nella voce o negli occhi, all’apparenza. Trema. Le mani, le gambe, i movimenti del corpo mentre cammina e mentre sta seduta non la lasciano stare. Non ha quiete. Resta sveglia di notte, dorme di giorno. Ha una reazione psicosomatica sulla pelle che è uscita proprio nel momento in cui tutto è iniziato, quando aveva 9 anni.

Risponde alle domande che le vengono fatte, è già la terza volta che proviamo a incontrarla, ogni volta c’era un problema per lei per poter uscire e sentirsi sicura.

La accompagno in un’altra stanza, cammina più lentamente di me, procede senza fare alcun rumore, dietro di me. La sua postura mi dice che vuole farsi piccola, il meno ingombrante possibile, si siede, in attesa di entrare, nel posto più attaccato al muro, più lontano possibile dalle altre persone in attesa.

Ha subito abusi per anni, da parte di suo padre. Violenze, dai fratelli. Che ora la cercano, e lei vive da sola, nascosta, senza neanche poter dire alla madre dove vive, per paura di essere trovata.

Lo penso, lo ripenso, ringrazio di non sapere cosa significa, resto inorridita davanti alla brutale realtà con la quale lei ogni giorno e ogni notte deve fare i conti, e completamente da sola.

 

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