La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici, dalle volontarie e dai volontari, di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Scicli ed è stato scritto dal volontario Paolo Gentiloni.
Roma (NEV), 22 agosto 2023 – Scrivo mentre guardo il mar Egeo in tutta la sua bellezza, sciacquata dal forte vento di ieri, in parte offuscata dagli schizzi rimediati poco fa in barca. Scrivo e penso, mentre in mente scorrono le immagini delle mie ultime due settimane… Ormai più di un mese fa, sono partito da Roma con i punti di domanda come zaino e il petto gonfio di chi a vent’anni vuole convincersi di “fare la differenza”, e ora sono qua sulla mia isola con quei “bagagli” che spero di tenere sempre stretti, senza imbarcarli mai.
Ci ho messo tanto, troppo, a trovare queste parole ma lentamente – uscendo a tentoni dai ritmi serrati che regolano la nostra estate greca – sto capendo il perché… Normalmente quando voglio scrivere qualcosa ho le idee chiare; so cosa voglio dire e il mio unico (non irrilevante) problema è trovare il modo giusto. Stavolta no: vorrei prendere queste due settimane abbondanti e spiattellarle sul foglio. E invece non posso.
Quindi l’unica cosa che posso fare è svuotarmi quelle tasche che a più di due settimane dalla mia partenza ancora profumano di Sicilia, riportando a galla tutti i fotogrammi che ho accumulato. Fotogrammi impregnati di ricordi, di emozioni e speranza; fotogrammi di vita, umanità e solidarietà; fotogrammi che trasudano quella voglia giovanile di cambiare il mondo e “fare rivoluzione” che spero di non perdere mai; fotogrammi che riflettono fiducia nel futuro e felicità interiore; ma soprattutto, come sempre, fotogrammi intrisi di frammenti di storie…
Storie come quella di Ahmed, che ha nove anni, viene dalla Tunisia ma si sente, ed è, sciclitano fino al midollo. Che ha il sorriso innocente di chi nel mondo vede solo il bene e che, nei giorni in cui siamo diventati amici, tra un “mbare” e un morso di panino, mi ha raccontato la sua storia. La storia di un bambino che nonostante i nove anni dimostra una maturità disarmante, in cui ho capito che la sua Tunisia gli piace “ma non per la polizia e il governo che fanno malissimo”.
Storie come quelle di Areej, una donna e una mamma che probabilmente più forte non si può… Che, arrivata in Italia a settembre scorso con in braccio il piccolo Siraj (detto Sisou e, ormai, Sergio), parla italiano come se fosse qua da qualche anno. Che non può lavorare perché stare appresso a Sisou vale come due lavori a tempo pieno, ma nei pomeriggi più caldi che l’estate italiana aveva da offrire mi scriveva per fare lezione di italiano. E che, soprattutto, quando ci siamo salutati, nel nostro abbraccio mi ha inghiottito in un vortice di emozioni che non penso si possa replicare.
Storie come quelle di Ahmer, che ancora oggi ha difficoltà a chiudere gli occhi per riposare, ma che – saputo che mi chiamavo Paolo e che mi piaceva il calcio – ogni volta che ci incontravamo per Scicli mi salutava urlando “Ehi Dybalaaa” con un sorriso enorme.
Storie come quelle di Taha, che è arrivato in Italia che vedeva poco e nulla per via di una malattia alla cornea e che purtroppo visita gli ospedali con la frequenza con cui noi andiamo in discoteca, ma che quando lo incroci la sera in piazza ride in modo viscerale, trasmettendo affetto puro.
Storie come quelle di Youssef, che qualche giorno fa è andato a Modica a ritirare la licenza media con il petto gonfio d’orgoglio e che non vede l’ora di trasferirsi ad ottobre a Ravenna, per approdare in una città che rappresenti finalmente quell’ideale occidentale che da sempre sognava di raggiungere.
Storie come quelle di Jule, Anna e Rosa, con cui ho convissuto per quasi venti giorni. Storia di cous cous e gelato, di mare e balli di gruppo, scritta in tedesco con qualche piccolo innesto in dialetto romano e vissuta all’insegna di quella voglia giovanile di spaccare il mondo che ci accomuna. Ma soprattutto la storia di tre ragazze che si vogliono un bene dell’anima, che nel loro sorriso incarnano la speranza di quella Gen Z che salverà il mondo.
E infine la storia di un posto in cui risiedono tutte le speranze che un ragazzo di vent’anni può avere per una società migliore. Un posto in cui individualismo e profitto hanno perso, al cospetto di solidarietà e affetto, amore e passione. Un posto, Casa delle Culture, che rappresenta quella parte di mondo che dovrebbe essere normalità, spogliandosi della sua aurea di angolo felice. Un posto che mi ha lasciato tanto, in cui ho potuto soddisfare il mio bisogno – in parte egoistico – di sentirmi finalmente “utile”, nella speranza poi di aver lasciato qualcosa anche io. Un posto che, soprattutto, lotta per quello in cui crede, e che mentre lo fa cambia la vita delle persone, ergendosi sulle spalle di donne e uomini straordinari come Gerardo, Giovannella, Erica, Mauro, Piero e Redouan, da cui ho imparato tanto, e tanto spero ancora di imparare…