La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici, dalle volontarie e dai volontari, di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Scicli ed è stato scritto da Piero Tasca, dopo un periodo a Lampedusa.
Roma (NEV), 17 luglio 2023 – Qualche giorno fa mi arriva una chiamata dalla nostra coordinatrice nazionale che mi chiede se fossi disponibile ad andare a lavorare a Lampedusa per 15 giorni. Le rispondo immediatamente di si. Ero stato in passato sull’isola in occasione del 3 ottobre per qualche giorno ma adesso non ho nessuna idea di che tipo di lavoro mi attenda. Decido di chiamare la collega a Lampedusa per informarmi un po’ ma dopo penso che sia anche giusto lasciarmi qualche dubbio e scoprire le cose appena arrivato.
Dopo un’ora e mezza di volo scorgo dal finestrino dell’aereo la costa dell’isola e la luce del sole che si riflette sulle sue rocce mi abbaglia. Scendo dalla scaletta dell’aereo e subito percepisco l’odore del mare che lambisce la pista d’atterraggio. Al mio arrivo trovo ad attendermi Emma, la collega che lavora a Lampedusa, mi accoglie con il suo sorriso e appena saliti in auto riceve una telefonata. Tra circa mezz’ora sono in arrivo al molo 300 persone, lei ringrazia e risponde che ci saremo…si gira verso di me e mi dice “Piero benvenuto a Lampedusa…si inizia”.
Passiamo da “Casa Mh”, lascio il mio zaino, un saluto veloce ai miei nuovi colleghi, carichiamo acqua e viveri in auto e, dopo circa due ore di volo, mi ritrovo “catapultato” nel mio primo sbarco al Molo Favaloro. Il molo è già un via vai di persone che sembrano muoversi secondo schemi ben precisi e standardizzati. Ci sono agenti in uniforme che si piazzano in prossimità delle tettoie in legno, personale della croce rossa che prepara fogli e braccialetti colorati e membri di Frontex che, taccuino alla mano, si avvicinano alla zona dello sbarco. Non ho nessuna idea di come muovermi e quindi seguo in tutto e per tutto la mia collega. Ci sistemiamo sotto una tettoia e con Emma e gli altri iniziamo a disporre dei bicchieri d’acqua su un tavolino. In attesa che arrivino le persone il mio sguardo è catturato da delle barche in ferro ammassate, insieme ad altre più grandi in legno, all’inizio del molo. Emma mi spiega che quelli sono i “tristemente famosi” barchini che partono da Sfax in Tunisia e che possono portare fino a 45 persone. Io non capisco nemmeno come possa una “trappola del genere” galleggiare vuota, figuriamoci con 45 persone a bordo. Qualche giorno dopo arriverà al molo una donna che invece all’interno di quel barchino ha dato alla luce la sua bimba, da sola e in mezzo al mare.
Ad un tratto la mia collega mi informa che possiamo iniziare ad accogliere le persone. Guardo verso la fine del molo e vedo che da una nave di soccorso della Guardia Costiera stanno scendendo sul molo le persone soccorse. Gli agenti li dispongono su due file, prima le donne e i bambini e, dopo un primo check medico, avanzano verso la “nostra tettoia” in cerca di un po’ di ombra dove poggiare i piedi spesso scalzi. Emma si precipita verso di loro con un bicchiere d’acqua in mano li accoglie con un “Bonjour Madame, bienvenue en Italie” e inizia a scambiare due parole con le persone arrivate. Comincia ad essermi finalmente chiaro il perché noi siamo li. Non è certo per un bicchiere d’acqua o un croissant, ma siamo lì per fare quello che quasi nessuno degli altri attori presenti al molo fa. Dare il benvenuto, accogliere le persone e parlare con loro. Mi lancio ed inizio anche io a dare il benvenuto, un bicchiere d’acqua e provare a parlare con le persone nell’attesa che vengono trasferite, con i mezzi della Croce Rossa, all’interno dell’hotspot dal quale poi non potranno uscire fin quando non verranno trasferite in delle strutture di accoglienza sulla terraferma.
Man mano la “nostra parte di ombra” si riempie di persone, le voci in varie lingue si mescolano tra di loro e si fa sempre più forte “l’odore del molo”. Un odore che è un mix di benzina proveniente dalle taniche di abbandonate sul molo, gas di scarico delle imbarcazioni di salvataggio, pungenti odori di un’umanità in movimento ferma spesso sotto il sole e poi l’odore del mare. Questo odore mi è entrato nelle narici e mi ha accompagnato per tutti i miei 15 giorni a Lampedusa.
La vita frenetica del molo durante lo sbarco ti cattura e cerchi di dare il massimo per queste persone che arrivano stremate da viaggi tremendi e che purtroppo spesso hanno anche conseguenze drammatiche.
In quindici giorni ho visto arrivare a Lampedusa circa 5000 persone. Donne, uomini e spesso molti bambini in cerca di una nuova vita. Tante notti mi sono trovato ad aiutare delle mamme a cambiare i loro bimbi fradici d’acqua di mare cercando di vestirli con qualcosa d’asciutto e guardando i loro occhi mi sono chiesto come, a distanza di anni, la politica continui a chiamare tutto questo “emergenza” e come si continui ad ignorare che invece l’unico vero modo per affrontare tutto questo è l’apertura di canali umanitari sicuri.