La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). O dalle volontarie e dai volontari che accompagnano per periodi più o meno lunghi il percorso di MH. Questo “sguardo” arriva dalla Bosnia ed è stato scritto da Giulio Tonincelli, fotografo e filmaker, che ha fatto un’esperienza come volontario con MH nel mese di dicembre 2022.
Dicembre 2022. Per la prima volta in Bosnia ed Erzegovina. Mi trovo a Bihać, una cittadina di 60 mila abitanti che si affaccia sul fiume Una, in un contesto dai tratti pungenti non solo a causa del freddo. Se le facciate umane hanno imparato a mascherare, consapevolmente o meno, quelle dei palazzi lungo tutto il paese parlano senza filtri o intonaci a nascondere le cicatrici di un tragico passato. E se il porre alla vista spesso è il miglior modo per celare l’evidenza a chi la vive quotidianamente, gli occhi estranei che per la prima volta incrociano certi dettagli potrebbero rimanere disorientati. Ci sono però segni più recenti che gli stessi occhi possono ingenuamente fraintendere.
Muovendosi in auto nei dintorni della cittadina, soprattutto lungo le sponde del fiume, si incontrano numerose strutture che durante l’estate ospitano turisti amanti del rafting e della canoa. Dunque, se alzando lo sguardo verso le montagne tra Bosnia e Croazia si distingue una spianata tra gli alberi, verrebbe spontaneo pensare ad una pista da sci per gli amanti degli sport invernali.
Ecco invece l’inganno, non per questo la zona di Bihać da molti viene definita una trappola. Questi molti sono soprattutto migranti, e la pista da sci è in realtà il confine ripulito e disboscato dalla polizia croata, dove sarebbero state poste trappole termiche atte a percepire qualsiasi movimento di essere umani, per lo più intenti a rischiare la vita per attraversare illegalmente una striscia di terra. Può una linea artificiale, sia essa asfalto o fiume, mare o foresta, determinare le sorti, i sogni e i privilegi di chi riesce a varcarla?
Se il famoso “game” che i passanti senza documenti tentano alle frontiere gioca sull’esclusione e sul respingere i partecipanti anche con metodi violenti, chi vive Bihać può invece contare su un’attività che permette un appiglio stabile, allenandosi a trovare così un equilibrio fisico e mentale, per prepararsi al futuro. La palestra di arrampicata Flamingo Loophole insegna la ricerca attraverso diversi passaggi, di scelte e non di obblighi, dove l’insicurezza e l’arrancare iniziali si trasformano in passi decisi verso una meta. Metafora di vita, questo sport unisce dilettanti, curiosi, bambini, adulti, religiosi e non credenti, educando al riflettere sulle mosse future.
Durante il mio scoprire questo paese, il gioco è un argomento che ritorna spesso nei discorsi…
Non pensavo al Tiglio da anni. Farlo evoca in me ricordi adolescenziali, di giugno, di vacanze, di libertà. La parola italiana deriva dal greco e significa “ala”, e da bambino, quando la struttura dei fiori seccava, mi divertivo a lanciarli dall’alto facendoli ricadere come elicotteri naturali. Queste rimembranze stridono con il complesso gelido, grigio e inospitale che mi si palesa di fronte dopo aver lasciato Bihać ed aver percorso circa 30 minuti di auto in direzione sud, e un paio di chilometri attraverso una strada sterrata. Qui, nel mezzo del nulla bosniaco, si trova il campo profughi di Lipa, che significa Tiglio. La struttura diventerà presto un centro di detenzione e rimpatrio, il Commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato Oliver Várhelyi Várhelyi esprime senza mezzi termini alcuni concetti: “Dobbiamo tenere sotto controllo le nostre strutture di detenzione a Lipa e nella regione…”. Queste parole ufficializzano solamente ciò che il ruolo del centro già ricopriva da tempo, dove spensieratezza, voli e desiderio di libertà degli ospiti vengono soffocati da determinate politiche.
L’invasione di cui si sente spesso blaterare in molti angoli della vecchia Europa e non solo, sembra svanita. Questa zona di confine del cantone Una-Sana (facente parte della Federazione di Bosnia ed Erzegovina) sta vivendo una stagione di stallo, di attesa. Le rotte balcaniche sono in continuo cambiamento e nel campo di Lipa, così come in quello per minori e famiglie di Borici, si vedono poche persone e il viavai sulle strade di cui si racconta è un lontano ricordo. Nel centro diurno aperto da Mediterranean Hope, dove alcuni mesi si faticava a mantenere determinati ritmi per la costante presenza di persone, lavorano Refka e Isak, una ragazza ed un ragazzo bosniaci che oltre a sistemare e tenere in ordine il magazzino in vista di possibili ospiti di passaggio, attualmente aspettano come mai fatto prima d’ora. Fortunatamente ad allietare le fredde giornate, oltre alle ottime zuppe di Refka, ci sono alcuni amici a quattro zampe. Il benvenuto qui è uno stile di vita ed è per tutti, nessuno escluso. Ci si sente in famiglia!
Muovendosi in auto lungo il paese, disseminate in ogni dove, si incontrano quel che penso essere divenute monumenti dedicati ad un’accoglienza, un’intimità e riparo che furono, e che nel nostro immaginario sono simbolo per eccellenza di famiglia. Abbandonate durante la guerra senza che nessuno mai tornasse a rivendicarle, centinaia di case permangono in uno stato di sospensione. Più delle grida, delle sirene e dei bombardamenti, mi terrorizza il vuoto, il solco di silenzio che certe tragedie generano e che sopravvive a lungo sulle terre e nelle menti di chi le subisce.
Molti degli spazi abbandonati, negli ultimi anni sono tornati a popolarsi grazie ai viaggiatori senza permesso che, sfuggendo ai campi profughi, preferiscono rifugiarsi in questi insediamenti precari ribattezzati “squat”. Testimoni inermi e immobili di pellegrini che, indossando vesti altrui, siano esse di tela o di cemento, fungono da riparo momentaneo. Un limbo in cui passato, futuro, oggetti, vite e forse anche pensieri, rimangono indefiniti.
Dalle incerte campagne di Bihać mi sposto nella dimensione cittadina di Sarajevo, dove si mescolano e intrecciano nebbia e smog, lingue e religioni. La tranquillità e la lentezza cedono il passo a socialità e pratiche più caotiche, ma pur sempre con attitudine balcanica. Un buon caffè ed il giusto tempo per assaporarlo non si nega a nessuno, soprattutto al centro diurno Kompas 071. Qui la situazione è però ben diversa rispetto al nord, i viaggianti sono numerosi e in cerca di aiuto. Da pochi giorni nel paese, dopo svariati mesi di viaggio, c’è chi giunge dal confine Serbo, chi da quello Montenegrino. Alcuni hanno già sperimentato il pushback, pratica criminale che attua la polizia per respingere in modo spesso violento, spogliando di ogni avere scarpe comprese, chi tenta di attraversare i confini. Nel centro viene quindi distribuito abbigliamento di ogni sorta (in base alle disponibilità che giungono attraverso donazioni), giacche, scarpe, è possibile utilizzare il wi-fi, fare conversazione o semplicemente rilassarsi. Tanti sono minori che sognano di raggiungere l’Europa, come Abdul, partito dal Pakistan e con in testa l’idea fissa di raggiungere l’Italia. Dopo aver recuperato alcuni vestiti ed un paio di scarpe, salutandomi di fronte ad un hotel che sembra essere di buon auspicio, in un inglese stentato mi dice che tra pochi giorni ci proverà, ad arrivarci. Sorridendo gli rispondo che ci incontreremo in Italia, inshallah!
Bio. Giulio Tonincelli, fotografo e filmmaker indipendente, co-founder di Moonwalk Studio e programmatore dell’Orvieto Cinema Fest. Realizza progetti per diverse ONG viaggiando tra Vicino Oriente, India, America Latina e Africa. I suoi progetti sono stati selezionati in numerosi festival internazionali in oltre 20 paesi.