Ayman, Fatima e i 4 figli hanno vissuto l’inferno siriano per una maledetta omonimia. Ora lasceranno il Libano per una nuova vita grazie al programma Mediterranean Hope della Fcei
Ayman non ha ancora compiuto 39 anni ma i suoi baffi d’altri tempi, lo sguardo spossato e la compostezza con cui si muove tra i pochi metri quadri del monolocale in cui vive da rifugiato a Bourj Hammoud – quartiere di Beirut a maggioranza armena – lo fanno sembrare più anziano di almeno un decennio. Sua moglie Fatima di anni ne ha 33, ed anche i suoi occhi scontano una vita – in particolare dall’inizio del conflitto siriano, oltre 8 anni fa – trascorsa troppo in fretta, segnata da precarietà, traumi e paure.
Fino a febbraio del 2011 Ayman e Fatima Saleh, insieme ai loro due figli Ahmed e Rawan, appartenevano alla media borghesia siriana. Musulmani sunniti, anche in Siria vivevano in un quartiere a maggioranza armena, Midan, proprio di fronte alla chiesa di St. Kevork, ad Aleppo. Lo conoscevano tutti, Ayman: falegname di formazione, da qualche anno aveva messo in piedi un mobilificio che faceva affari in tutto il paese, usando macchinari importati dall’Italia. “Nei periodi peggiori, avevo almeno 15 dipendenti, le nostre condizioni erano ottime dal punto di vista economico, potevamo permetterci di vivere bene”, spiega davanti a un caffè, preparato da Fatima su un fornello da campeggio.
Anche per questo, quando scoppiano le prime proteste in Siria, i Saleh sono tra i siriani in qualche modo indifferenti alle istanze socio economiche di una parte della popolazione, e non vi partecipano in alcun modo. La situazione, specie ad Aleppo e Homs, degenera in fretta. Con le defezioni di alcuni generali siriani, nell’estate 2012 nascono le prime formazioni militari ribelli, che arrivano ad assediare l’Esercito siriano nei dintorni della base militare di Hraytan, periferia nord-est di Aleppo.
È proprio il fatto di essere originario di Hraytan – uno dei primi villaggi in cui si manifesta in Siria – che cambia per certi versi il corso della vita di Ayman, oltre ad un caso di omonimia che lo perseguiterà negli anni a venire: da settembre 2012 iniziano a spostarsi di quartiere in quartiere, facendosi via via ospitare da amici o parenti e lasciandosi alle spalle Midan – occupato dal Free Syrian Army –, con le macerie della loro casa distrutta dai bombardamenti, che colpiscono anche la Chiesa di St. Kevork.
Ogni volta che passa per un checkpoint dell’Esercito, Ayman viene fermato e arrestato, perché viene da un’area sotto il controllo dei ribelli e sopratutto perché si chiama come un suo lontano cugino, in quel momento ricercato. “Mi hanno fermato decine di volte, sempre con la stessa motivazione. Quelle in cui sono rimasto in cella solo uno o due giorni non le conto nemmeno”, ricorda. Nel frattempo, a fine 2011, nasce Wissam, il terzogenito.
A metà del 2014 – quando è nata da pochi mesi la quarta figlia, Salma – il primo calvario personale: l’Esercito lo arresta e lo tiene in cella per venti giorni, sottoponendolo a pestaggi nel tentativo di ricavare informazioni che non ha. Viene rilasciato per poi subire lo stesso destino, con gli stessi presupposti, solo qualche mese dopo, durante l’inverno del 2015, ad un altro checkpoint. Questa volta rimane dentro quasi un mese, e il fatto che i suoi documenti provino che ha otto anni in più del suo omonimo, se possibile, peggiora la situazione, perché sono stati rilasciati in un ufficio situato in una zona controllata dai ribelli.
Quando esce è in uno stato pessimo: alcune ferite presentano infezioni parassitarie a causa delle condizioni di detenzione, e lo fanno rimanere a letto per quasi due mesi. In quel periodo per Fatima, già alle prese con quattro bambini di nove, otto, tre e un anno, è come se fosse un quinto figlio. Ed è proprio lei a convincerlo ad andarsene dalla Siria: a marzo 2014 Ayman, con in tasca tutti i risparmi salvati dai bombardamenti, riesce ad arrivare a Zahle, città libanese nella valle della Beqaa. “Ho trovato un piccolo appartamento a buon mercato. Così sono tornato indietro, ho messo la sua famiglia su un bus e ad aprile 2015 eravamo tutti e sei in Libano”.
La valle della Beqaa, tuttavia, non è un luogo facile. Terra di narcotrafficanti – sorgono qui le più estese piantagioni di hashish dell’intera regione, controllate da piccoli e grandi boss -, povera, carente nelle infrastrutture, e storico luogo di militanza: qui avevano sede alcune formazioni militari palestinesi durante la guerra civile, e sempre qui, nella città di Baalbek, è nato il movimento filo iraniano di Hezbollah. Per via della vicinanza al confine siriano, nella Beqaa in quel periodo la tensione è ancora più palpabile, accompagnata da un continuo flusso di volontari (sopratutto di Hezbollah, alleato del regime siriano) che attraversano il confine per combattere i gruppi jihadisti a ridosso dello stesso. Meno di un anno prima, nella città libanese di Arsal – una settantina di km da Zahle – era andata in scena una feroce battaglia tra Esercito libanese e alcuni nuclei dell’Isis e di Jabhat al Nusra che avevano l’avevano occupata, nella quale moriranno una trentina di soldati.
Al di là delle vicende militari, nell’area di Zahle “l’atmosfera era inquietante. Abbiamo vissuto ogni giorno nella paura, i miei figli non dormivano la notte. Non so perché ma avevo la sensazione permanente che qualcuno ci seguisse”. Un giorno, mentre cammina sul ciglio della strada, alcuni individui lo fermano e gli chiedono di dov’è. “Sono siriano, di Aleppo”; risponde Ayman, pensando che basti. Nella Beqaa, complice la vicinanza alla Siria, la percezione diffusa si è già polarizzata, le semplificazioni hanno attecchito: se sei siriano, o stai con Assad, o stai contro di lui. Ed è questo che di fatto gli dicono: “cosa ci fai qui? Dovresti essere in Siria a combattere!”, racconta Ayman.
Questo episodio lo convince a spostarsi nuovamente: nei caotici sobborghi a sud di Beirut vive un suo concittadino, che fornisce ai Saleh una stanza in cui vivere in sei, il tempo necessario a trovare un’altra sistemazione. Dopo aver pagato lo scotto di un’altra notte in cella – confuso ancora con un’altra persona, residente a Tripoli -, attraverso un amico siriano trova la stanza di Bourj Hammoud dove lo incontro. Riesce anche a trovare un lavoro in qualche modo affine alle sue competenze, come falegname, solo che stavolta è lui ad essere un dipendente del suo datore di lavoro libanese.
Secondo il sistema della Kafala, diffuso in alcuni paesi del Medioriente, un migrante che lavora sopratutto nel settore edilizio e manifatturiero ha bisogno di uno “sponsor” locale, che attraverso alcuni documenti ne garantisca la “legalità”. Quando questi documenti scadono, a maggio 2016, Ayman deve tornare in Siria per rinnovarli. Ma in Siria non ci arriva da solo, perché nei pressi del valico di confine siro-libanese di Masnaa viene fermato dall’Esercito, ancora una volta per quella maledetta omonimia, e condotto direttamente in un centro di detenzione siriano.
Sarà l’ultima detenzione – un mese e cinque giorni – ed anche la più dolorosa: non solo dal punto di vista fisico, con le consuete torture, ma anche perché quando viene fermato con lui c’è tutta la sua famiglia. Suo figlio Ahmed assiste impotente al suo pestaggio in mezzo alla strada, e lo vede scomparire all’interno di una camionetta. Quando Ayman verrà liberato grazie ad un conoscente nell’Esercito, e riesce a rientrare in Libano, trova Ahmed in condizioni peggiori di quelle in cui lo aveva lasciato. Il bambino, che oggi ha 14 anni, soffre di una forma di epilessia che era già peggiorata nel 2012, durante la fuga dai bombardamenti, nella quale per qualche interminabile minuto era scomparso dalla vista dei genitori, dopo aver imboccato il vicolo sbagliato. Assistere ai maltrattamenti del padre ha richiesto un intervento più concreto, che oggi è portato avanti sopratutto da una ong libanese – Restart – che lo segue nel suo percorso.
Per Ayman e la sua famiglia l’incubo di una vita dissoltasi tra le macerie del loro quartiere è forse alle spalle: a fine settembre un aereo li porterà in Italia, grazie ai corridoi umanitari, dove troveranno prima accoglienza a Figline Valdarno, nell’ambito del programma Mediterranean Hope, gestito dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), che sosterranno tutte le spese. “I corridoi umanitari – spiega Simone Scotta, operatore di Mediterranean Hope, programma migranti e rifugiati della FCEI in Libano – sono ormai un modello usato in tutta Europa, ed è un’esperienza che andrebbe ampliata. Di storie come quella dei Saleh ce ne sono molte altre: tutte queste persone meritano di arrivare in Italia, in Europa, in modo sicuro e dignitoso. Ci auguriamo che questa best practice diventi una politica strutturale. Quello che vorremmo fare è, infatti, un corridoio umanitario europeo dalla Libia, per 50mila persone vulnerabili, come stiamo chiedendo anche con la campagna La giusta rotta”. I corridoi sono regolati da un Protocollo d’intesa sottoscritto per la prima volta nel 2015 dal Ministero degli Affari Esteri, dalla Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie, dal Ministero dell’Interno, dalla FCEI, la Tavola Valdese e la Comunità di Sant’Egidio. Da allora, da Beirut, oltre 20 corridoi umanitari distribuiti su circa 30 voli aerei hanno permesso l’accoglienza in Italia di più di 1700 persone, in gran parte siriane, provenienti soprattutto da Aleppo, Homs, Idlib e Damasco.
Quando gli chiedo cosa cosa vorrebbe fare e cosa si aspetta dall’Italia, Ayman evoca sensazioni che non prova da tanto tempo: “Quando sento la parola Italia penso alla sicurezza, alla pace e alla tranquillità. E poi, mi vengono in mente i miei macchinari”.