di Eleonora Camilli via Open Migration, 11 luglio 2019
Arrivano alla spicciolata, verso le 18, quando il sole inizia ad essere più sopportabile e il cammino dall’hotspot al centro di Lampedusa è meno faticoso. Poi, a uno a uno, si siedono sui gradini della chiesa di San Gerlando e col wifi libero, messo a disposizione da don Carmelo, riescono a collegarsi a Internet e chiamare casa. Emmanuel ci prova due volte, fino a quando sullo schermo appare il volto di sua madre: “Sono in Italia, è finita – grida in francese -. E’ finita”.
La commozione lascia spazio a un sorriso, finalmente, sereno. Dei giorni passati in un centro di detenzione in Libia non vuole parlare, mostra solo le cicatrici sul braccio, due ferite profonde, di colore chiaro, che spiccano sulla sua pelle scura: “è difficile da spiegare cosa succede lì, impossibile per chi non ci è passato. E’ l’inferno”. Era partito dalla Costa D’Avorio alla volta di Tripoli per lavorare, racconta, ma è finito nelle mani dei trafficanti, fino a rimanere per mesi prigioniero in un centro. “Vivevamo come animali – dice – ho pensato più volte di morire”. Poi il viaggio, il soccorso in mare, i giorni dello stallo. Emmanuel è uno delle 42 persone rimaste a bordo della nave Sea Watch 3 per oltre due settimane, dopo essere stato salvato in mare a metà giugno. Non sa spiegarsi bene cosa sia successo: “C’è stato un problema politico con l’Europa e l’Italia non ci voleva, almeno così abbiamo capito”. Una sola cosa ripete: “Carola (la comandante di Sea Watch Carola Rackete, ndr) ci ha salvato la vita, le dobbiamo tutto, sappiamo che ora ha problemi con la giustizia, ma speriamo che tutto finisca presto anche per lei”.
Poco più in là Danielle guarda la piccola Grace, di un anno e cinque mesi, correre avanti e indietro sotto il porticato. Anche loro sono arrivate a Lampedusa da pochi giorni, a bordo di una motovedetta della Guardia costiera, dopo essere stati intercettati in mare dalla nave dell’ong spagnola Open Arms, che ha fornito loro un primo supporto. Poi i militari italiani hanno fatto salire le persone su due imbarcazioni: i casi vulnerabili (11 in tutto, tra cui 2 donne incinte e 5 bambini) sono arrivati al molo Favarolo di Lampedusa, mentre gli altri hanno fatto rotta verso Pozzallo.
Appena sbarcata, Danielle si è accasciata a terra, mentre suo marito teneva in braccio la piccola Grace. Gli attivisti di Mediterranean Hope e del Forum Lampedusa solidale le hanno versato dell’acqua sul viso per farla riprendere. Hanno poi ripetuto il gesto su uno dei bambini di appena due anni, svenuto per la fatica della traversata. “Stanotte ho finalmente dormito – dice Danielle – abbiamo un letto. Cosa ci succederà non lo sappiamo, ma già essere qui e non più in Libia è una conquista”. Anche lei arriva dalla Costa D’Avorio, spera un giorno di raggiungere la Francia, ma per ora le basta vedere la piccola Grace giocare tranquilla.
Nella piccola piazzetta della chiesa di Lampedusa, che costeggia l’affollata via Roma, l’eco mediatica del dibattito pubblico sugli sbarchi e la chiusura delle frontiere, sembra non arrivare, neanche in lontananza. Queste persone al centro dell’agenda politica e mediatica per settimane, sanno poco di quanto si sta discutendo sulla loro pelle, si interrogano solo sul loro futuro, che sembra quanto mai incerto. Pochi giorni dopo il nostro incontro i migranti sbarcati dalla Sea Watch 3 lasceranno l’isola alla volta di Messina, passando da un hotspot all’altro. E, come denunciano le associazioni che fanno parte del progetto In Limine, diventando vittima di un nuovo trattenimento illegittimo.
“Questa vicenda palesa l’urgenza di interrogarsi su quanto avviene a seguito degli sbarchi. Dopo l’approdo sulla terra ferma, infatti, si apre una fase di sostanziale invisibilità, nel corso della quale vengono spesso violati i diritti fondamentali dei cittadini stranieri, a cominciare dal diritto alla libertà personale e dal diritto di asilo, entrambi di rilievo costituzionale – scrivono in una nota congiunta. Dal loro arrivo in Italia, avvenuto 11 giorni fa, i cittadini stranieri, che per 17 giorni sono stati in mare in attesa dell’assegnazione di un porto di sbarco, si trovano in una condizione di detenzione arbitraria. Nel caso delle persone soccorse dalla Sea-Watch, come in numerosi altri casi, le autorità si limitano, tuttavia, a privare di fatto le persone della loro libertà, senza notificare alcun provvedimento e senza che queste persone possano mai incontrare un giudice che si esprima sulla legittimità del trattenimento”.
Le organizzazioni ricordano che qualsivoglia forma di privazione della libertà personale che non sia esplicitamente prevista dalla legge, disposta con ordine scritto dell’autorità giudiziaria o da altra autorità e convalidata dall’autorità giudiziaria entro 48 ore dall’adozione del provvedimento, costituisce una lesione del principio di inviolabilità della libertà personale contenuto nell’art. 13 della Costituzione. Pertanto la richiesta che avanzano alle autorità competenti è di predisporre l’immediata liberazione dei cittadini stranieri che sarebbero trattenuti illegittimamente all’interno del centro hotspot di Messina, fornendo informazioni chiare e pubbliche in relazione alla condizione giuridica e alle procedure a cui sono sottoposti. Inoltre le associazioni si sono rivolte anche al Garante nazionale per le persone detenute o private della libertà personale affinché disponga immediate ispezioni nei centri di Lampedusa e di Messina al fine di constatare le effettive circostanze in cui si trovano le persone trattenute informandone il Ministro dell’interno, il Parlamento e l’opinione pubblica.
Intanto nell’ultima settimana Lampedusa è stata teatro di un nuovo caso, quello che vede coinvolta la barca a vela Alex dell’ong Mediterranea. Dopo aver dichiarato lo stato di necessità a bordo forzerà il blocco imposto dal nuovo decreto sicurezza bis per entrare in porto così come, qualche settimana prima, aveva fatto Carola Rackete con la Sea Watch 3. Intanto sull’isola continuano gli sbarchi autonomi di piccole imbarcazioni che arrivano sulle coste siciliane senza essere intercettati dalle autorità. Sul molo Favaloro le navi di legno ammassate le une accanto alle altre portano inciso sul legno la data dell’arrivo: un archivio a cielo aperto degli sbarchi. Nonostante la sovraesposizione mediatica del fenomeno, però, l’isola non sembra vivere nessuna emergenza immigrazione, così come il resto del paese.
I numeri, mai come quest’anno, sono bassissimi: secondo il ministero dell’Interno dal 1 gennaio al 10 luglio sono 3.153 le persone arrivate in Italia, il 96,30 per cento in meno rispetto al 2017 e l’81,38 per cento in meno rispetto al 2018. Di queste, secondo una stima di Matteo Villa, ricercatore di Ispi, solo 297 sono approdate nel nostro paese a bordo di una delle navi delle ong ancora operanti nel Mediterraneo. Non solo, ma anche le cifre dei cosiddetti “sbarchi fantasma”, sono totalmente irrisorie: appena 1.010 persone arrivate in 45 sbarchi, rileva l’Osservatorio sui flussi nel Mediterraneo curato da Alberto Mallardo di Mediterranean hope, che da 4 anni vive a Lampedusa.
“Non si tratta di un fenomeno nuovo, anzi – spiega -. Ben prima del 2014 e del lancio dell’operazione Mare Nostrum, gran parte delle persone arrivava in Italia in maniera autonoma. Ovviamente se non ci sono le missioni di ricerca e soccorso le persone arrivano da sole, con imbarcazioni private. Inoltre, l’assenza di assetti di search and rescue rende il Mediterraneo più pericoloso. Non abbiamo più contezza di quanti siano i morti effettivi, perché sono venuti meno tutti i testimoni in mare”.
Oltre al monitoraggio, Mediterranean Hope insieme al Forum Lampedusa solidale si occupa dell’assistenza di chi arriva al molo Favarolo, fornendo beni di prima necessità, dall’acqua alle coperte termiche. Le persone vengono poi seguite nei giorni successivi, anche dopo l’entrata nell’hotspot. “Negli ultimi anni le migrazioni sono diventate terreno di scontro politico e di campagna elettorale, c’è stata una forte polarizzazione del dibattito – aggiunge. Fino a qualche anno fa le ong operavano a stretto contatto con gli asset italiani ed europei, replicando modelli operativi imparati dalla Guardia Costiera. Poi a un certo punto ci si è concentrati sull’operato delle ong, iniziando a fare politica in mare, sulla pelle delle persone. Così è stato anche per il caso Sea Watch. E così Lampedusa è tornata ad essere un palcoscenico che vede, di volta in volta, recitare attori diversi in parti diverse. Nel 2011 fu l’isola dell’invasione e della sostituzione etnica, nel 2013 dopo la visita di Papa Francesco e la tragedia del 3 ottobre, divenne l’isola dell’accoglienza, l’isola simbolo degli angeli del mare. Oggi è di nuovo al centro del dibattito. Noi pensiamo innanzitutto alle persone, siamo presenti e assistiamo chi arriva anche per spezzare un meccanismo di accoglienza fatto di mascherine, di presenza militare, cercando di dare un benvenuto più accogliente”.
Anche Paola La Rosa del Forum Lampedusa solidale contesta con forza la parola emergenza: “qui l’unico problema che potrebbe diventare ogni giorno più grave è il sovraffollamento dell’hotspot che deve restare vuoto, i trasferimenti verso i centri di accoglienza devono essere sempre rapidi. La capienza è di circa 100 posti, ma spesso si sono toccate punte di 300. Questo non può più accadere, perché il centro deve essere pronto ad accogliere le persone in grave stato di vulnerabilità, che sempre più spesso vengono portate qui. E che non possono trovare situazione di sovraffollamento o promiscuità”. L’attivista contesta anche l’uso del termine “sbarchi fantasma” sempre più abusato nei media mainstream: “è un modo di dire che risponde a una precisa fattispecie: il ritrovamento di una barca sulle coste, senza che si sappia che fine abbiano fatto i passeggeri. Qui a Lampedusa è molto difficile che questo accada: anche se si arriva di notte, in un luogo sconosciuto, alle prime luci dell’alba si sa benissimo chi sono le persone e dove sono – spiega. Per questo noi li chiamiamo sbarchi autonomi. Il fenomeno è contenuto ma in aumento perché non c’è più monitoraggio del Mediterraneo, non c’è nessuno che li intercetta e li soccorre”.
La Rosa ricorda che nei giorni della crisi della Sea Watch oltre 200 persone sono sbarcate a Lampedusa, la maggior parte portate dalle motovedette della Guardia Costiera italiana, ma alcuni anche arrivati in autonomia. “Orma – conclude – essere salvati da una ong è quasi una colpa, non lo dico io, lo dicono i fatti: condanna allo stallo e non assicura l’arrivo in un porto sicuro in tempi rapidi”.
In copertina: barche sul molo Favaloro di Lampedusa (foto di Eleonora Camilli)
*Il nome del ragazzo è di fantasia. Nell’articolo alcuni nomi sono stati modificati per tutelare l’incolumità delle persone intervistate