(di Classe II F Istituto Comprensivo «Via Della Tecnica», Pomezia (Roma), via Corriere della Sera)
Era un caldo pomeriggio d’estate, nella città di Homs dove abitavo con la mia famiglia. Le persone non avevano perduto la voglia di uscire e divertirsi, nonostante fossimo nel bel mezzo della guerra. Come tutti i giorni liberi, stavo giocando a calcio nel cortile dietro la scuola con i miei migliori amici Amir, Mohammad e Alì. La partita si stava concludendo in pareggio, il tiro decisivo spettava a me. In quel tiro misi tutta la mia passione per il calcio e, nel momento in cui il mio piede colpì con tutta forza la palla, sentii un sibilo. Alzai lo sguardo al cielo e vidi una bomba cadere su di noi, poi il buio… Aprii gli occhi con fatica: mi trovavo in una stanza completamente bianca, avvertivo il ronzio del neon, intravidi la sagoma di una donna: mia madre. Mamma mi abbracciò, chiamò papà con voce tremante e, piangendo dalla gioia, disse: «Sei vivo!». Mi raccontò che i medici erano intervenuti d’urgenza, mi avevano dovuto amputare la gamba sinistra.
La mia vita era cambiata per sempre. La situazione in Siria era diventata talmente pericolosa che mamma e papà decisero di fuggire in Libano dai miei zii. Il tragitto da casa per arrivare all’auto fu molto pericoloso, i soldati del governo ci sparavano addosso senza tregua o pietà e mio fratello maggiore si affaticò molto per trasportarmi sulle spalle ma, fortunatamente, ne uscimmo vivi, grazie alla protezione di Allah. Il viaggio da Homs a Tripoli fu molto stressante, venimmo fermati continuamente da soldati che ci perquisivano. Al nostro arrivo scorsi un paesaggio squallido: sul terreno tante baracche, capii che una di quelle sarebbe stata la nostra casa. Appena mettemmo piede nel campo, il vento gelido ci travolse, portando uno sgradevole odore di cacca di animale. Ma lì, nonostante tutto, la situazione era migliore rispetto a quella che avevamo lasciato in Siria, qui, almeno, non c’era la guerra. Dopo qualche settimana dal nostro arrivo andai a scuola e feci amicizia con dei bambini siriani come me.
La scuola era dura e non accogliente, spesso venivo maltrattato dai miei insegnanti che mi punivano picchiandomi perché ero pigro nello studio. Le settimane passavano lente, credevo che non saremmo mai usciti di lì. Una sera di inizio inverno, uscito da scuola, mentre tornavo a casa con mio fratello e mio cugino, fui avvicinato da una signora siriana come me, Yasmin, che mi raccontò la sua storia. Anche lei come noi era di Homs e, con il marito e le due figlie, era fuggita in Libano per salvarsi dalla guerra. Yasmin mi disse che esisteva un’organizzazione che avrebbe potuto aiutarci e portarci in un posto sicuro, ero felicissimo per questa notizia, lo dissi subito a mia madre che si mise in contatto con Yasmin. L’organizzazione nasceva da un protocollo d’intesa tra la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese e il governo italiano e, grazie alla loro solidarietà, dopo quattro anni avremmo lasciato il Libano e saremmo andati in Italia.
Il giorno della partenza eravamo tutti emozionati: Il viaggio in aereo verso l’Italia è stata l’esperienza più bella della mia vita, un sogno diventato realtà, ero felicissimo, era la prima volta che prendevo l’aereo, ero curioso di tutto. Il Capitano mi fece visitare la cabina di pilotaggio, era tutto bellissimo! Guardai il Libano farsi piccolo sotto di noi e mi addormentai. Quando mi svegliai il mondo fuori dall’oblò era tutto bianco e azzurro! Appena arrivati in Italia siamo stati portati in ospedale. Lì siamo rimasti 13 giorni e non ci siamo mai sentiti stranieri. I dottori si sono comportati benissimo con noi e abbiamo conosciuto tante brave persone. Poi fummo trasferiti a Campo Leone, vicino Roma, ospitati a Casal Damiano, un agriturismo dove la signora Sonia ci preparò la Lasagna! Ma a Campo Leone eravamo solo di passaggio, la nostra destinazione definitiva sarebbe stata Pomezia dove io e Amro, mio fratello maggiore, saremmo andati a scuola. Fummo iscritti alla scuola media dell’I.C. Via della Tecnica. Non vedevo l’ora di incontrare nuovi amici. Finalmente arrivò il giorno del mio ingresso in classe; ero spaventato consapevole che il mio futuro sarebbe iniziato dopo aver oltrepassato la porta blu della mia nuova classe: la 1 F.
Eravamo appena rientrati dalle vacanze di Natale era l’ora di storia dell’arte, d’un tratto bussarono alla porta ed entrarono il prof. Gismondi e la prof. Guarino, i nostri professori di matematica e italiano, con un’aria seria. Eravamo in ansia, non sapevamo cosa ci aspettasse, la professoressa Guarino, con il suo altissimo tono di voce, ci annunciò: «Ragazzi abbiamo una notizia per voi, arriverà un nuovo compagno, un profugo siriano che ha vissuto la guerra e non parla l’italiano» ci dissero che la Dirigente Scolastica e i Professori avevano scelto la nostra classe perché la ritenevano la più accogliente e ora noi avevamo una grossa responsabilità.
A questa notizia eravamo sconvolti ma allo stesso tempo felici. Appena i prof uscirono dall’aula iniziammo a parlare tra di noi. Eravamo molto incuriositi e ansiosi all’idea dell’arrivo di questo ragazzo; i prof. avevano detto che aveva vissuto in condizioni precarie, affrontato grandi difficoltà. Tutti iniziammo a chiederci quale fosse il suo aspetto fisico, il suo carattere. La domanda che principalmente ci ponevano era: in che modo saremmo riusciti a comunicare? Alcuni di noi erano preoccupati all’idea che potesse essere aggressivo, abituato come era alla violenza della guerra, oppure malato dato che in Siria, a causa dei bombardamenti, non arrivano le medicine e circolano molte malattie. La maggior parte di noi, comunque, non vedeva l’ora di conoscerlo! Dopo qualche giorno di febbrile attesa il nostro nuovo compagno arrivò, si chiamava Dia e, per fortuna, parlava italiano, metà delle nostre preoccupazioni svanirono. I professori, per allentare la tensione, iniziarono a raccontarci la sua storia, lo fecero accomodare vicino a Francesco che, lì per lì, rimase perplesso, non sapeva come comportarsi.
Per giorni tra i due compagni di banco ci fu imbarazzoma, piano piano, presero coraggio e iniziarono a parlare; un giorno Francesco mostrò a Dia il suo smartwatch nuovo e, vedendo lo stupore e il desiderio nei suoi occhi, decise di regalarglielo, era l’inizio di una nuova splendida amicizia. Qualche mese dopo i professori decisero di spostare Dia affianco a Samuele, un ragazzo vivace. I due legarono immediatamente, condividevano la stessa passione, il calcio! Una domenica mattina Samuele era in campo e si stava riscaldando, quando arrivò Dia che si accomodò in tribuna. Quando Samuele segnò un goal dal pubblico arrivò un mare di applausi e di grida, il giovane calciatore alzò lo sguardo e, scorgendo il compagno fare il tifo con la passione di un hooligan, sorrise e gli dedicò il gol. La voce e le grida di Dia accompagnarono tutte le azioni! In breve tempo Dia ha dimostrato di essere vivace, tenero, sensibile, poco studioso e testa dura, esattamente come noi!
Non potevamo non volergli bene. Abbiamo deciso di non escluderlo da nessuna nostra attività: nell’ora di educazione fisica abbiamo preso a giocare a palla a mano da seduti, ci divertiamo moltissimo con questo gioco. Il giorno di carnevale ci siamo organizzati per giocare in piazza con scherzi e schiu-ma da barba, era il primo carnevale di Dia che un po’ si vergognava ma poi si è fatto trascinare e a fine giornata, nonostante fosse molto stanco non si voleva fermare, fuori da scuola e proprio scalmanato ed infaticabile! Le nostre reciproche differenze si sono annullate, ci aiutiamo a vicenda, ognuno si prende carico dell’altro così nessuno resta indietro. In gita scolastica, ad esempio, Dia aveva deciso di seguire per la prima volta il Ramadan come un adulto. Era digiuno dal tramonto e non aveva fatto i conti con la strada tortuosa che ci avrebbe portato a Subiaco, nel giro di pochissimo è diventato verde e ha iniziato a stare male. I professori si sono prodigati per aiutarlo ma lui, testa dura com’è, non si rassegnava al fatto che avrebbe dovuto mangiare qualche cosa.
Quando finalmente ha ceduto si è trovato di fronte al grande problema che avevamo tutti pane e salame, prosciutto, mortadella. Il maiale era ovunque! Fino a quando una nostra compagna non si è ricordata di avere della pizza: fu così che Eleonora «salvò» Dia. Quest’inverno, Sofia si è fatta male alla caviglia e per due settimane ha dovuto portare il tutore e le stampelle. Era molto preoccupata di rimanere isolata, costretta ad usare l’ascensore non poteva scendere in palestra o in laboratorio con gli altri, durante la ricreazione restava nel banco, stava male, si era intristita. Dia, sapendo bene come doveva sentirsi, anche se con lei non aveva mai parlato davvero, le si è avvicinato, ha rotto il ghiaccio e per le settimane successive l’ha aiutata, insegnandole il modo più facile per usare le stampelle le ha fatto compagnia e l’ha fatta sorridere, fu così che Dia «salvò» Sofia. In una sola occasione abbiamo visto Dia disperato, eravamo nel corridoio andando in palestra e, ad un tratto abbiamo sentito un crack secco, come quello di un ramo che si spezza, era la vecchia stampella di Dia che aveva ceduto.
Dia ha iniziato a piangere silenziosamente, abbiamo visto venire giù dei lucciconi grossi grossi, ci siamo stretti intorno a lui e abbiamo provato a tirarlo su di morale, ma nessuna delle nostre parole sembrava avere effetto, fino a che la professoressa Aldrighetti, la nostra professoressa di sostegno, non ha avuto un’idea: ha chiamato il marito che, come dice lei è una specie di MacGyver (qualunque cosa sia un MacGyver), questi arrivò subito prese con sé la stampella e nel giro di mezz’ora la riportò a scuola come nuova. L’ingresso di Dia in classe ci ha fatto capire che, al di là della provenienza geografica, della religione e della lingua siamo tutti uguali e abbiamo bisogno solo di amicizia, affetto, solidarietà, comprensione e aiuto e senza di ciò non siamo nulla. (arabo: alsadaqat walhunnan waltadamun waltafahum walmusaeada) (polacco: przyjaíń, uczucia, solidarność, zrozumienie, pomoc).
Questa è la nostra storia.