Roma (NEV), 26 ottobre 2016 – Grazie ai corridoi umanitari, lunedì e martedì scorso sono giunti in Italia dal Libano altre 128 persone. Mi è stato chiesto di provare a fornire il mio punto di vista: il punto di vista di chi lavora a monte, in Libano, prima degli arrivi, dei flash, dei sorrisi, delle strette di mano e della consapevolezza, sincera, di aver ottenuto un piccolo grande risultato.
Il ruolo dell’operatore sul campo non è sicuramente semplice, o almeno non è avvertito come semplice dal sottoscritto, per il carico di emozioni di cui ti carica, un “fardello” che bisogna evitare che influisca sugli stati d’animo, sul rapporto con i colleghi o, sarebbe peggio, nei confronti dei possibili beneficiari del progetto.
Oggi, ad un giorno di distanza dall’arrivo in Italia del quarto gruppo, la sensazione che provo è dolce, dolcissima: c’è la consapevolezza di portare avanti un progetto unico, in Italia e, speriamo non ancora per molto, in Europa. La gioia che ti dà un arrivo deriva dal fatto che è in quel momento che vedi realizzato l’obiettivo: garantire a un gruppo di persone la possibilità di ripartire, iniziare nuovamente dopo diversi anni di stop a causa della guerra e delle difficili condizioni di vita in Libano. Numeri piccoli, non c’è dubbio, ma numeri che consentono al progetto di organizzare un’accoglienza diffusa e individuale, un percorso attento ai bisogni delle persone. Vivo questo progetto come un modello in espansione: riuscire ad espanderlo a livello europeo è la sfida. Sia chiaro, non tocca a noi cambiarla, l’Europa: tocca a noi indicare ad una classe politica che sulla sfida dell’immigrazione latita una soluzione creativa e fattibile.
In giorni come questi la sensazione è dolce perché, non lo nascondo, nel momento in cui vi è la certezza che il singolo o il nucleo che hai curato arriverà in Italia la relazione diventa anche personale. Ho 27 anni, sono italiano, e lavorare sul campo in Libano mi spinge ad incontrare un mondo di persone con un vissuto che non è il mio; vista la giovane età media della popolazione siriana spesso quelle persone sono miei coetanei. In Libano ti capita d’incontrare una ragazza di 26 anni con cinque anni di Psicologia alle spalle e due esami mancanti: ma a quel punto, Homs, la sua città, va in fiamme, e non c’è altra via che la fuga. In mezzo, un padre e un fratello persi. È facile identificarsi con chi ha la tua età, ed è allora che tocchi con mano il mare di possibilità che separa le due sponde del Mediterraneo.
Trovarsi di fronte a queste persone non può lasciarti indifferente. Tu sei lì, con la penna in mano, ascolti. Le peggiori situazioni vissute tra Siria e Libano. E scrivi, continui a prendere nota, guardi quelle persone, i loro occhi, ma ascolti la traduttrice. Provo ad immaginare quanto sia ancor più difficile per lei, che sente tutto in lingua madre.
Le storie rimangono, non passano via come l’acqua. E tante di quelle storie rimangono in Libano. Non siamo eroi. Siamo felici per aver cambiato in modo netto il percorso di vita di alcune persone: 400, nemmeno pochissime, in meno di un anno.
Lavorare a questo progetto mi fa sentire fortunato. Questa sensazione mi conforta e non mi abbandona mai.