La frontiera addosso

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FCEI/MH ha aperto un nuovo “cantiere” a Rosarno, con l’obiettivo di intervenire sull’eccezionale disagio sociale di migliaia di immigrati concentrati in tendopoli e sfruttati in condizioni semischiaviste nel lavoro agricolo stagionale. Questa è la prima corrispondenza da Rosarno. 

Rosarno (NEV), 5 giugno 2019 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” arriva da Rosarno ed è a cura di Alberto Mallardo e Francesco Piobbichi.

Le bustine di Oki in terra vicino alle tende del campo di Rosarno sono una traccia che chi lavora in frontiera conosce bene. Servono per lenire i dolori, fisici e mentali, di quanti lavorano nelle campagne. Come ogni ghetto anche questo è separato spazialmente dalle aree urbane limitrofe, e come ogni ghetto è strumento di segregazione ed esclusione dai diritti legati alla residenza e al lavoro. Le baracche del campo informale distrutte dalle ruspe a pochi passi dal campo delle tende blu del governo sono li a testimoniare il segno della frontiera.

Incontriamo l’ambasciatrice del Burkina Faso, Josephine Ouedraogo, che è arrivata per cercare di comprendere le condizioni dei propri connazionali nella Piana di Gioia Tauro. Ascolta con sguardo attento i ragazzi che si sfogano con lei, l’unica che in questi anni ha avuto il coraggio di venire a vedere le condizioni dei suoi connazionali. Insieme a lei andiamo anche a Drosi, una piccola frazione accogliente dove il processo d’integrazione ci colpisce nella sua semplicità e naturalezza, e quindi per la sua forza. E’ commovente sentire i Burkinabè parlare della propria vita per la prima volta davanti ad una autorità del loro paese che gli riconosce dignità. Riconosciamo in quegli occhi che s’incrociano un orgoglio profondo che non siamo sempre abituati a vedere nello sguardo di chi arriva dalla Libia ed approda a Lampedusa.

Lavorare contemporaneamente sull’isola di Lampedusa ed aprire un intervento nella piana di Gioia Tauro ci porta a ricordare cosa produce la frontiera che filtra, disciplina e imprigiona chi arriva in una condizione di perenne vulnerabilità. E quella parola con la quale abbiamo accolto tante persone a Lampedusa – “benvenuti” – dentro di noi che ci guardiamo intorno, assume un senso particolare, in questo luogo sembra svuotarsi di ogni significato. Persone costrette all’invisibilità sociale pedalano lungo la strada dopo aver lavorato per decine di ore nei campi. Soli nella notte con i loro stivali ancora sporchi dalla terra ci passano davanti e ci salutano sorridenti accompagnati dalle luci del porto di Gioia Tauro che fanno da sfondo.

Ad illuminare la notte però in questi mesi non sono state solo quelle luci, ma anche il fuoco delle baracche bruciate che ha mangiato vite. I media parlano della vita e delle condizioni dei braccianti solo quando queste persone muoiono tra le fiamme o com’è successo un anno fa a Soumalia Sacko, quando vengono uccise perchè stavano cercando delle lamiere, in una fabbrica abbandonata, per costuirsi la propria baracca. Non è la prima volta che i braccianti diventano un bersaglio, è successo molte volte, e per questo motivo nel 2011 scoppiò la rivolta che portò ai tragici fatti di Rosarno. Mentre Giuseppe Pugliese, dell’Associazione Sos Rosarno, ci accompagna alla stazione conosciamo una persona che porta sulla sua pelle i segni delle pallottole del 2011. Ci sorride e ci racconta che fino alla settimana scorsa era a Riace dove lavorava per la pulizia del paese. Ora però è tutto chiuso, ci dice, è tornato a Rosarno per iniziare tutto da capo.

“Tutto da capo”, queste parole risuonano nella nostra testa per tutti questi giorni mentre giriamo per la Piana e vediamo campi informali che si stanno svuotando perchè i braccianti, seguendo la stagione del raccolto, si spostano verso nord, passando dalle arance della piana ai pomodori del foggiano. Sembra che tutto il sistema lavori  per mantenere la loro vita in una costante precarietà. Costringendoli, stagione dopo stagione, al punto d’inizio di un eterno presente dove non è possibile avere dignità e diritti.

 

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