di Valerio Nicolosi via TPI, 26 aprile 2019
Un minibus da 30 posti dove erano stipate oltre 100 persone, tutte in fuga da Aleppo dove da alcuni mesi si combatteva tra le forze governative siriane e quelle degli
islamisti. Un viaggio della speranza che ha portato Ali Alabdullah e la sua famiglia in Libano, appena al di là del confine, nel campo di Tel Abbas.
“Eravamo in 11 nello spazio di due sedili e ad ogni città o paese c’erano numerosi posti di blocco delle milizie governative. Noi venivamo da Aleppo e siamo sunniti, per loro poteva voler dire essere oppositori, ma in realtà noi stavamo solo scappando dalla guerra. Siamo riusciti a passare e ad arrivare in Libano solo corrompendoli”.
La vita nel campo non è stata facile, i siriani non hanno uno status di rifugiati e si trovano in un limbo legislativo per cui non hanno i documenti per lavorare o studiare, sono “tollerati” nei campi profughi o, per chi può permetterselo, nelle città.
Nel 2017, quando Ali e la sua famiglia si trovavano ancora in Libano, c’erano circa un milione e mezzo di siriani nel Paese, a fronte di una popolazione nazionale di quattro milioni. Potenzialmente una situazione esplosiva in una realtà come quella libanese con forti contrasti interni, tanto che le tre più importanti cariche istituzionali sono divise per legge in base alla confessione tra sciiti, sunniti e cristiani.
“Ogni volta che usciamo dal campo rischiamo di essere fermati e arrestati dalla polizia libanese perché siamo senza documenti e quando riesci a trovare lavoro, è sottopagato. È una vita difficile”.
Andare via dal Libano è molto complicato, via terra praticamente impossibile visto che è circondato proprio dalla Siria e a sud confina con Israele, ufficialmente ancora in guerra con il Paese dei cedri.
Oggi però Ali, sua moglie Khaldiyie e i suoi 9 figli si trovano in Italia, precisamente a Rivalta di Torino, un piccolo comune di 20.000 abitanti, dove hanno potuto ricominciare la loro loro vita grazie ai Corridoi Umanitari, progetto della Federazione delle Chiese Evangeliche e della comunità di Sant’Egidio che insieme al governo italiano nel 2015 hanno siglato un accordo per i primi mille visti umanitari da utilizzare in due anni. Un progetto che viene finanziato in larga parte dall’otto per mille della Chiesa Valdese oltre che da una raccolta fondi di Sant’Egidio e di altre comunità ecumeniche.
“La più grande difficoltà è stata confrontarsi con una cultura molto diversa dalla nostra. Io sono andato a scuola dopo quattro mesi che eravamo arrivati in Italia e parlavo solamente poche parole. È stata dura però ora stiamo bene, ognuno di noi, dei fratelli più grandi, ha scelto quello che voleva fare: io sono andato a scuola mentre gli altri due hanno scelto di lavorare e ora hanno un contratto e stanno bene”. A raccontarlo è Abdallah, il figlio più grande che ha scelto l’indirizzo turismo e che sogna di fare il mediatore culturale. “Mi piacerebbe aiutare chi arriva, io so quello cosa vuole dire e posso essere utile”.
Dell’accoglienza si è occupato Tommaso Panero che insieme all’associazione “Giuliano Accomazzi” e a diverse parrocchie di Torino hanno messo a disposizione il necessario.
“Accogliere questa famiglia era più difficile per i soliti canali, 11 persone non sono facili da gestire. Così, dopo essere stato per alcuni mesi volontario nel campo di Tel Abbas, ho deciso che volevo aiutarli e abbiamo lanciato una raccolta fondi nelle parrocchie. La risposta è stata incredibile, nel giro di un mese abbiamo trovato 150 famiglie disposte a finanziarci per due anni”.
II primo anno e mezzo Ali, Khaldiyie, Abdallah e tutti gli altri, hanno vissuto in una struttura che fa parte del Gruppo Abele che si chiama “Il filo d’erba”, dove vivono altre famiglie e ci sono spazi comuni da condividere.
“La cosa più importante, oltre ad avere un fondo economico per finanziare l’inserimento della famiglia, è avere una comunità pronta ad accoglierla e questo da noi c’è stato tanto che abbiamo pensato di allargare il nostro progetto ad un’altra famiglia, che però al momento è bloccata in Libano in attesa del visto”.
I visti per i corridoi umanitari sono emessi dal Ministero degli Affari Esteri dopo i controlli di sicurezza effettuati anche dal Ministero degli Interni. Negli ultimi mesi i tempi d’attesa si sono allungati e alcuni visti sono stati bloccati senza sapere il motivo.
Una delle famiglie bloccate è quella di Jassem Alabdallah, del fratello di Ali, anche loro erano al campo di Tel Abbas due anni fa e avrebbero dovuto raggiungerli a Rivalta di Torino.
“Abbiamo accelerato la ricerca di una casa per Ali, Khaldiyie e i loro 9 figli in modo da lasciare quella che li aveva accolti per un anno e mezzo ai nuovi arrivati. Loro ora sono in una casa autonoma mentre gli altri sono ancora bloccati in Libano”, aggiunge Tommaso Panaro.
La solidarietà anche in questo caso si era già mossa e le stesse 150 famiglie che avevano sostenuto Ali, stavano già supportando quella di Jassem racco
gliendo dei soldi. Soldi che nell’attesa di vederli arrivare hanno deciso di mandare in Libano e di dare loro la possibilità di affittare una casa e non vivere più in un campo profughi.
Di visti per l’Italia ne restano 500 fino a dicembre 2019, quando scadrà la seconda convenzione tra la Federazione delle Chiese Evangeliche, Tavola
Valdese, Sant’Egidio e la Farnesina.
“Dopo i primi due protocolli che hanno messo a disposizione duemila visti in quattro anni, pensiamo che questo debba essere un modello da perseguire e per questo siamo ottimisti”, dice Federica Brizi di Mediterranean Hope, progetto della Federazione delle Chiese Evangeliche che si occupa proprio dei migranti.
Non solo l’Italia sta utilizzando i corridoio umanitari. Francia, Belgio e Andorra hanno adottato questa modalità di ingresso, attivando tutti i protocolli necessari.
“Ci auguri
amo che possa diventare un modello per altri corridoi gestiti direttamente dai Governi, come per esempio per l’emergenza in Libia per la quale abbiamo chiesto 50.000 visti. Con
il nostro progetto abbiamo dimostrato, oltre a portare le persone in sicurezza in Italia, che l’accoglienza può essere fatta in modo strutturato, non emergenziale e con costi minori rispetto a quelli che vengono allocati per la prima accoglienza”, chiosa la responsabile dell’accoglienza della Federazione delle chiese evangeliche in Italia.