Roma (NEV), 24 aprile 2019 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene dal Libano ed è stato scritto da Barbara Battaglia, che ha seguito il viaggio dell’ultimo corridoio umanitario da Beirut a Roma.
Le storie dei corridoi umanitari, l’unica via d’accesso legale e sicura dei profughi provenienti dalla Siria, in Italia ed Europa, sono quelle di persone vulnerabili che riescono ad accedere al programma realizzato dalla Federazione delle Chiese evangeliche italiane e dalla Comunità di Sant’Egidio e a cambiare vita. E poi ci sono quelli che in Italia non arriveranno mai.
Nell’ultimo corridoio, lo scorso 28 marzo, abbiamo raccontato, grazie al giornalista Valerio Cataldi del Tg3 la partenza di una famiglia composta da cinque bambini e due genitori. Due figli erano gravemente malati, non avevano accesso alle cure mediche – come accade per tutti i rifugiati siriani e per la gran parte delle classi più povere, in Libano – e questo è stato uno dei motivi principali che ha spinto la famiglia a partire. Vivevano in un luogo relativamente dignitoso, su un colle, ad alcune decine di chilometri da Beirut, verso Sud-Est.
La mamma ci ha mostrato cosa portava in valigia, i bambini i loro disegni. Nella loro casa non lasciavano quasi nulla. Non lasciavano nemmeno un oggetto. Ma c’erano tre persone, tre donne. Una di queste era la nonna, la madre della donna che ci mostrava la sua valigia e che stava per partire per provare a salvare i propri figli, malati e non. Con ogni probabilità non vedrà mai più né i nipoti né la figlia. Per un profugo è sostanzialmente impossibile viaggiare, e per loro sarà molto difficile ritornare in Libano, anche solo per un periodo limitato. La signora era troppo anziana, immagino, per partire, per stravolgere la propria vita, imparare una lingua, cambiare di nuovo abitudini. Il suo dolore stava lì, piangeva e non c’era altro da aggiungere o parole che potessero avere un senso, o gesti che potessero consolare.
Altra donna, altra vita: a Tripoli, Nord del Libano, tre ore da Beirut, su un balcone di un appartamento curato. Ci vivevano quattro persone, due donne e due bambini. Una delle due donne è la madre dei bambini, il padre li ha abbandonati e non ha mai accudito i figli. Chi resta sono delle ragazzine, una giovane donna in particolare che sul balcone di quella casa voleva a tutti i costi fare dei selfie con chi partiva e con chi li aiutava a partire, con gli operatori di Mediterranean Hope. Voleva farsi i selfie, come tutti. E intanto vedeva partire la sorella. Credo che sperasse di raggiungerla, prima o poi. Era un arrivederci, per lei, anche se non so se il suo sogno si realizzerà mai, e se le resteranno solo quelle foto, come ultimo ricordo della sorella “più fortunata”.
Quelli che non partono sono un pugno nello stomaco, non sono la storia a lieto fine, non c’è nessun lieto fine per loro, non c’è nessuna speranza. Sono lì, a dirci di un’ingiustizia che non è sanabile, che non si colma, che resterà e di cui qualcuno è responsabile. Che sia la guerra, la condizione di migranti, il bisogno di tutela umanitaria, o i risultati della globalizzazione neoliberista, quali che siano i perchè delle condizioni materiali in cui vivono, loro sono lì. Non andranno da nessuna parte, restano in un campo, o in una casa se sono fortunati, a sopravvivere ogni giorno, con pochi diritti che nessuno gli garantisce.
Domani è l’anniversario della Liberazione. Una delle immagini più forti che ho del Libano, e in particolare del campo profughi di Tel Abbas, è una bambina, 2-3 anni al massimo, che ci ha accolti cantando Bella ciao. Le piaceva ricevere le nostre attenzioni, abbiamo passato un po’ di tempo insieme, a giocare attorno alla videocamera e alle macchine fotografiche, e conosceva la canzone-simbolo dei partigiani. Non so se partirà mai per l’Italia o per qualche altro paese, non so se e quanti altri anni resterà a vivere in un campo profughi a pochi chilometri dalla Siria.
Questo 25 aprile è per te.