Resistere alla deriva umanitaria

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(NEV) La medica Valeria Sottani è appena rientrata dopo una missione sulla nave Open Arms di Proactiva con la quale la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) collabora ormai da tempo. L’abbiamo intervistata

Valeria Sottani, medica, è appena rientrata a Barcellona dopo una missione di 15 giorni a bordo di Open Arms, la nave della ONG spagnola Proactiva con la quale la Federazione della Chiese evangeliche in Italia (FCEI) ha un partenariato.

L’abbiamo contattata mentre ancora si trova in Spagna, a bordo di Open Arms nel porto di Barcellona, in attesa di capire se parteciperà anche alla prossima missione in partenza il 12 dicembre.

Lei si definisce laica, ma per questa missione ha deciso di appoggiarsi alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia.

Nella mia vita ho collaborato con organizzazioni sia laiche che religiose perché credo che nella circostanza di emergenza umanitaria, come è quella dei rifugiati, l’importanza dell’obiettivo necessiti di ogni sforzo possibile e superi qualsiasi categoria. Si può scegliere l’impegno umanitario per diverse ragioni. Io, semplicemente, non vedo alternativa ad aiutare chi è in difficoltà.

Lei ha già avuto un’esperienza di collaborazione con le chiese evangeliche tedesche.

In Germania ho collaborato con la chiesa evangelica in un campo profughi in cui erano presenti 1200 rifugiati. Nel 2015 quando si sono aperte le frontiere per accogliere il costante e intenso flusso di profughi, – o migranti, io non percepisco la differenza -, provenienti dalla rotta balcanica, si era sviluppata una efficace rete di solidarietà tra associazioni laiche e religiose, governative e non. La chiesa evangelica si occupava di un gran numero di campi, e in uno di questi ho avuto la fortuna di lavorare anche io.

Come è stata l’esperienza su Open Arms?  Cosa si aspettava prima di partire e cosa ha trovato sulla barca?

Collaborare con Open Arms è stato soprattutto un privilegio. Ho l’impressione che siano in molti, più di quanto si trasmetta pubblicamente, a sentirsi implicati nella resistenza umanitaria alla recente deriva a cui assistiamo praticamente in tutti i paesi europei. Imbarcarsi significa poter essere testimone diretto della situazione nel Mediterraneo centrale e dare il proprio contributo in un progetto di attiva resistenza con una delle poche ONG rimaste in mare. Conoscevo Proactiva da quando ha iniziato la sua attività a Lesbo; all’epoca ero in Germania, e lavoravo con gli stessi migranti che attraversavano l’Egeo. È un’organizzazione che non solo contribuisce attivamente e con un’esperienza preziosa al salvataggio dei migranti, ma che garantisce anche una testimonianza constante, instancabile e diretta della situazione della “frontiera” mediterranea.

Cosa significa per un medico impegnarsi in una missione come questa? Come vede il suo futuro?

Scelsi di fare il medico quando ero poco più che un’adolescente, intollerante alla sofferenza umana. La lotta alla sofferenza e al dolore è ancora di gran lunga il mio principale movente professionale: l’adesione ad attività umanitarie è quindi parte integrante del mio lavoro e della mia vita. Credo sia difficile sentirsi motivati a lavorare nei contesti medici tanto privilegiati quando si è circondati da tanta disuguaglianza nella redistribuzione delle risorse sanitarie. Per quanto valga, forse non molto, scelgo di apportare il mio piccolo contributo nel piatto più scarno della bilancia nel tentativo di ribilanciarla.

Si sente cambiata dopo questa esperienza? Cosa ha imparato?

Si impara, nelle barche delle ONG nel Mediterraneo, a non farsi sovrastare dall’orrore degli eventi e a reagire. Si impara a combattere lo sconforto dell’indifferenza delle istituzioni. Si impara la resistenza attiva all’odio, fatta di fatti. Nelle barche delle ONG ci sono persone che danno a ogni vita lo stesso valore e che si ribellano con instancabile determinazione alla deriva responsabile di questa inarrestabile strage.

MH
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