Sembra quasi primavera in Libano. Il cielo è limpido e il sole è mite e tiepido. Non abbastanza per riscaldare l’umido garage di una ventina di metri quadrati in cui vive una giovane coppia con due bambini, Hussein e Falak, di sei e sette anni.
Arrivano da Homs, dal quartiere Al Khaldiah, ma da due anni vivono in un affollato sobborgo alla periferia di Tripoli, a nord del Libano — tra pozzanghere, detriti ferrosi e spazzatura abbandonata lungo il ciglio della strada su cui affaccia la loro dimora.
Nell’unica stanza, divisa da un lenzuolo in zona giorno e zona notte, ci sono una piccola cucina a gas, una stufa a gasolio, un letto matrimoniale per tutta la famiglia e poco altro. Sono scappati di fretta dalla Siria, racimolando le cose essenziali che oggi riempiono lo squallido garage.
“Siamo fuggiti quando l’esercito regolare ha dato fuoco ad una parte della nostra casa. Così come eravamo vestiti, così siamo partiti, pagando seicento dollari ad un taxi che ci ha portato fin qui,” racconta a VICE News Suliman, il padre dei due bambini.
La loro famiglia partirà presto per l’Italia, insieme ad altri 250 rifugiati che approderanno nel nostro paese grazie a un ‘corridoio umanitario’ approntato dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e dalla Comunità di Sant’Egidio, e finanziato attraverso l’8 per mille donato alla chiesa valdese.
Nel loro caso specifico la procedura è stata accelerata dalle autorità italiane e libanesi, per permettere alla piccola Falak di iniziare la chemioterapia in Italia.
Falak è infatti affetta da retinoblastoma, una rara forma tumorale che colpisce la retina. Operata d’urgenza al Child Cancer Center di Beirut, pochi giorni dopo Natale, ha perso l’occhio destro — e ora necessita di cure urgenti per salvare quello sinistro.
“Quando aveva due anni, abbiamo portato nostra figlia in Giordania per questa patologia ma, a causa della guerra, non abbiamo potuto eseguire i controlli periodici,” racconta Yasmine, una donna minuta e gentile, mentre versa del dolcissimo chay e offre dei biscotti al sesamo.
Yasmine parla inglese. Ha studiato due anni letteratura all’università di Aleppo prima di sposarsi: “Vorrei poter ricominciare a studiare e ad aiutare come interprete le altre persone che arriveranno in Italia,” dice agli operatori di Mediterranean Hope.
Mentre dall’esterno risuona la voce del muezzin per la preghiera di pranzo, un uomo zoppicante si affaccia alla porta. Lo accompagna un ragazzetto dalle guance paffute.
Sono Jihad e Bilal, fratello e nipote di Suliman. Non sono nella lista di coloro che giungeranno in Italia, ma vorrebbero provare a partire insieme alla famiglia di Falak. I responsabili del progetto chiedono all’uomo più anziano perché fatica a camminare.
“Sono caduto correndo, per proteggermi dagli attacchi aerei. Mi sono rotto la gamba ma non ho potuto curarla e questo è il risultato”, esclama mostrando il ginocchio deformato. Ha lo sguardo triste e spento quest’uomo dal viso sciupato. “Non volevo che gli altri miei figli venissero arruolati nell’esercito del regime,” racconta Jihad, “per questo siamo venuti in Libano.”
In Libano, paese con quattro milioni di abitanti, risiedono attualmente un milione e duecentomila siriani, l’equivalente di circa quindici milioni di rifugiati in Italia.
Le stime dell’Unhcr sono al ribasso, essendo aggiornate a maggio 2015, mese in cui il governo libanese ha chiesto all’organizzazione internazionale di interrompere la registrazione dei rifugiati.
C’è chi vive in garage, chi in edifici abbandonati, chi in tende situate su terreni affittati dai proprietari libanesi e chi, più fortunato, in appartamenti.
A breve – ma la data precisa non è ancora stata comunicata – 250 persone verranno trasportate in Italia, sottratti ai trafficanti di uomini e ai rischi del mare.
Il progetto dei corridoi umanitari è un’iniziativa italiana che, secondo Marco Impagliazzo, Presidente della Comunità di Sant’Egidio, servirà anche a salvare vite umane: “È un progetto che garantisce sia la protezione umanitaria che la sicurezza, e che fa del nostro un paese-guida in Europa per l’accoglienza ai rifugiati.” i profughi saranno accolti in Piemonte, Sicilia, Toscana e a Roma.
Durante la conferenza stampa di presentazione del progetto Eugenio Bernardini, moderatore della Tavola Valdese, aveva spiegato che al momento i fondi disponibili ammontano a un milione di euro, e che dovrebbero arrivare presto altre donazioni.
Come sta avvenendo la selezione? Secondo quanto dichiarato a VICE News da Maria Quinto, della Comunità di Sant’Egidio, è la vulnerabilità il criterio cardine della selezione.
“L’ambasciata dà un parere, il ministero dell’Interno controlla i nominativi, quindi c’è già un iter che prevede delle forme di controllo,” ha spiegato Quinto. “Per questo si parla di vulnerabilità: cercheremo di fare in modo che non ci siano casi in cui la richiesta d’asilo viene rigettata, perché chiaramente non è previsto il riaccompagnamento nel paese di transito.”
Nel ‘garage’ dove vivono Hussein e Falak c’è Simone Scotto, uno dei responsabili del progetto. Mentre Scotto domanda a Yasminediportare i documenti di registrazione dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), la donna chiede all’altro operatore d’incontrare un compagno di scuola di Falak.
“È un bimbo di dieci anni, senza una gamba, lo potete visitare?”
Dopo una manciata di minuti, dall’angolo della strada, saltellando con le sue stampelle e tenendo distante la madre, più lenta di lui, compare Dima.
Luciano Griso, medico dell’equipe di Mediterranean Hope, che accompagna gli altri operatori, lo visita. “Ha una ferita terribile, come ogni ferita di guerra”, esclama con amara rassegnazione il burbero dottore, “Avrebbe bisogno di una protesi”.
Dima e la sua famiglia hanno lasciato la Siria a fine 2012, pochi mesi dopo la perdita della gamba, causata da un’esplosione di fronte al portone della loro casa a Homs.
Un’altra famiglia inserita nella lista del corridoio umanitario vive in un’umile casa vicino ad Harissa, località alle porte di Beirut, nota meta di pellegrinaggi. Arrivano da Aleppo, da Sulaymaniyah, quartiere a maggioranza cristiana.
Erano una famiglia benestante di artigiani; possedevano una fabbrica, situata in un quartiere finito sotto il controllo dei ribelli, che produceva pregiati manufatti in legno venduti in una delle tradizionali botteghe della cittadella.
Per loro è stato impossibile portare avanti la loro attività e, in poco tempo, sono finiti sul lastrico, senza un lavoro, soldi e possibilità per il futuro. Così sono venuti in Libano, due anni fa.
Ad accompagnare gli operatori del progetto al monastero, luogo dell’appuntamento, è Toufik, padre francescano libanese. È lui che comunica a Youssef, un uomo alto e robusto, la notizia della partenza per l’Italia insieme alla sua famiglia: due figli e una moglie, Georgina, che come Yasmine parla inglese.
La donna ha studiato economia all’università di Latakia, e adesso lavora gratis in una scuola privata come insegnante di matematica per permettere al figlio Antony di frequentare la scuola.
Il bambino ha subito un trauma di guerra e ha smesso di parlare, dopo che il loro quartiere è stato bombardato per un’intera settimana. Dovrebbe iniziare una terapia con uno psicologo, ma in Libano questi servizi sono a pagamento.
Grazie al progetto, la sua e altre famiglie raggiungeranno l’Italia in maniera sicura e legale, con un normale biglietto aereo. Un costo nettamente inferiore rispetto a quello che pagherebbe un migrante affidandosi alle organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani.
Come spiega a VICE News Francois Crepeau, professore canadese all’università McGill di Montréal e Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i diritti dei migranti, “le tariffe [dei trafficanti] variano a seconda della rotta, del periodo e della domanda.”
“Ci possono essere reti di smugglers molto organizzate che organizzano tutto il viaggio da Istanbul a Berlino e generalmente si paga in anticipo anche diecimila, quindicimila dollari oppure reti meno strutturate in cui il migrante paga solo l’attraversamento in barca,” aggiunge.
“Non c’è un prezzo fisso ma sicuramente è un’assurdità lasciare che questi soldi finiscano nelle mani delle organizzazioni criminali quando potrebbero essere spesi nei paesi di destinazione, se esistessero vie sicure per arrivarci.”
Le famiglie verranno accolte dalle strutture delle organizzazioni promotrici del progetto, le quali seguiranno queste persone per almeno un anno nell’assistenza legale, sanitaria e nelle attività di integrazione attraverso corsi di lingua e di avviamento al lavoro.
I dubbi, tra chi è pronto a partire per l’Italia, comunque non mancano. “Avremo i documenti? Potremo uscire di casa o saremo dentro un centro di detenzione?” si chiede Youssef. “E la scuola per i bambini?”
Anche Giorgina è felice ma perplessa, teme i rischi di un nuovo viaggio in un paese lontano. “E se non riuscissi a trovare un lavoro?”, chiede, sul punto di piangere.
Come biasimare chi è costretto a ricominciare la propria vita da zero? Una delle altre famiglie in partenza per l’Italia è una famiglia irachena, composta da otto persone, in fuga per la terza volta. Prima dalle bombe americane a Baghdad nel 2003, poi dallo Stato Islamico vicino a Mosul nel 2014 e adesso da Beirut.
Nessun jihadista dunque, né criminali: solo persone vulnerabili in fuga dalla guerra o da più guerre. Come loro altri milioni. Solo che loro sono i mille fortunati della lista.
Una lista che – pur in tempi, epoche e circostanze diverse – a qualcuno potrebbe ricordare quella di Schindler, l’imprenditore tedesco che salvò circa mille ebrei dallo sterminio durante la seconda guerra mondiale.