L’Eritrea è un piccolo paese, con una popolazione stimata tra i 4 e i 5 milioni di abitanti, che affaccia sul Mar Rosso. Situato nella parte settentrionale della regione del Corno d’Africa, confina con il Sudan a Ovest, con la piccola Gibuti a Sud-Est e con l’Etiopia a Sud, dalla quale è divisa dal fiume Mahreb, confine nazionale dal 1993. La sua composizione etnica vede la presenza dei Tigrini (52%), dei Tigrè (18%), degli Afar (8%), dei Kunama 4%, e infine il restante 18% è costituito da altri gruppi: Nara, Saho, Beja, Bilen. L’Etiopia è invece un paese molto più grande, con circa 90 milioni di abitanti, costituitasi dal 1991 come repubblica federale a base etnica. Il paese è infatti un incrocio di varie etnie, tra le quali i Tigrini, gli Amhara, gli Oromo, Sidamo e gli Afar sono quelle quantitativamente più rilevanti.
Sebbene oggi siano due nazioni indipendenti, le storie dell’Eritrea e dell’Etiopia sono fortemente intrecciate dal punto di vista politico, linguistico, religioso e culturale. Ciò che oggi si chiama infatti Eritrea è, di fatto, una invenzione del colonialismo italiano: l’Italia dichiara l’Eritrea “colonia primigenita” il 1 Gennaio 1890. Si trattava di un insieme di province culturalmente, linguisticamente ed etnicamente molto distinte tra loro: le popolazioni tigrine dell’altopiano eritreo erano storicamente legate, dal punto di vista linguistico, culturale e religioso, più con le popolazione tigrine dell’altopiano del tigray etiopico e con le popolazioni Amhara dell’Etiopia, che con i nilotici Kunama, i musulmani dei bassopiani e le popolazioni non stanziali che entrarono a far parte della neonata eritrea. Le popolazioni dell’altopiano centrale erano storicamente legate all’Etiopia, il più antico stato africano, il cui nome, di origine greca, è adottato a partire dalla fondazione del Regno di Axum (1), avvenuta (data convenzionale) nel X secolo a.C. Si trattava di una entità politica molto complessa, la cui principale peculiarità è forse stata il suo legame con la religione cristiana: l’Etiopia è l’unico paese subsahariano a conoscere il cristianesimo ben prima della colonizzazione europea che esporta questa fede negli altri paesi africani. La religione cristiana si diffuse, infatti, tra le popolazioni tigrine ed amariche degli altopiani, a partire dal IV Secolo d.C. quando i regnanti di Axum si convertirono al cristianesimo. Questa profondità storica del cristianesimo ha fatto guadagnare all’Etiopia l’etichetta di “impero cristiano”; sarebbe tuttavia errato pensare all’Etiopia come ad un paese monolitico dal punto di vista religioso, sulla tipologia dei paesi europei del Medioevo: la composizione dell’area è data dall’intreccio di diverse tradizioni e saperi, oltre che dalla presenza rilevante dell’islamismo che, presente in Etiopia sin dalle prime espansioni musulmane, costituisce attualmente circa il 34% della popolazione in Etiopia e tra il 40 e il 45% in Eritrea. Il cristianesimo che si diffonde in Etiopia è quello basato della dottrina monofisita condannata dal Concilio di Calcedonia del 451. Tale dottrina sostiene la sostanziale unità delle due nature – divina ed umana – nella persona del Cristo. La natura del Cristo, secondo questa dottrina, sarebbe una sola, quella divina, che avrebbe assorbito la natura umana al momento dell’incarnazione in una sostanziale unità. Sebbene la chiesa ortodossa etiopica resti legata formalmente alla chiesa ortodossa egiziana sino al 1959, anno in cui Haile Selassie I decide per la sua nazionalizzazione, la sua tradizione liturgica, teologica e terapeutica si è fortemente indigenizzata ed ha dato luogo ad una tradizione cristiana di fatto separata. Oltre al corpus di pratiche della chiesa, la sua particolarità, dal punto di vista politico, è il forte legame che essa viene a costituire con il potere etiopico: non solo, infatti, l’introduzione del cristianesimo si deve ai regnanti di Axum, ma l’intera diffusione della fede cristiana nell’area è stata fortemente alimentata dai vari imperatori che hanno delegato varie funzioni amministrative, fiscali e di gestione della terra alla chiesa ortodossa: tra i tanti ruoli che la chiesa svolgerà successivamente, è, infatti, di notevole importanza quello di strutturazione del possesso della terra e della sua distribuzione. Il colonialismo italiano non aveva spezzato il legame tra le popolazioni eritree ed etiopiche, mantenendo un confine attraversabile. La storia dei due paesi torna ad intrecciarsi nel secondo dopoguerra, quando l’Italia perde le sue colonie nel corno d’Africa. La questione eritrea era sospesa e momentaneamente l’ex colonia italiana era affidata al protettorato militare britannico. Il 2 Dicembre 1950 una risoluzione della Nazioni Unite (risoluzione 390A) decise per l’annessione dell’Eritrea come regione autonoma al neonato Stato Federale Etiopico. L’Eritrea manteneva così la sua autonomia in campo economico, degli affari interni e in campo dell’educazione. Questa esperienza iniziò nel 1952 e finì meno di dieci anni dopo, poiché nel 1961 Haile Selassie vìola di fatto queste autonomie, vietando l’uso della bandiera eritrea e del tigrino nelle scuole. A causa di queste vicende, e per un sentimento nazionalista sorto nelle fasi finali del colonialismo italiano, nel 1961 nasce al Cairo il primo Fronte di Liberazione dell’Eritrea, da musulmani in esilio. Di fatto, questo fronte manterrà al suo interno le divisioni che caratterizzavano i clan islamici del bassopiano (metahit = le terre basse). Il movimento fondato da Idris Muhammad Adam, che vide successivamente anche l’adesione di un nazionalista della prima ora quale Wolbeab Woldemariam (cristiano ortodosso), era di fatto nato nel 1960. Il 1961 è considerato però l’anno di svolta perché l’11 Settembre fu svolto il primo attacco di guerriglia. Tutt’ora in Eritrea l’11 settembre, oltre ad essere l’inizio del nuovo anno nel calendario etiopico, è festeggiata la mgwegemar bretawi qalsi, l’inizio della lotta eritrea. Nel 1974, il governo di Haile Selassie, combattuto dallo FLE, viene rovesciato da un colpo di stato militare che porta al governo il movimento comunista filosovietico del Derg, guidato da Menghistu Haile Mariam. Nello stesso anno, da una scissione interna del Fronte di Liberazione Eritreo, nasce il Fronte Popolare di Liberazione dell’Eritrea (FPLE), che sposta la lotta eritrea in un orizzonte più marcatamente marxista-leninista, con una forte influenza del Maoismo cinese (in Cina, studiarono molti dei futuri quadri del movimento, tra cui il leader e attuale presidente dell’Eritrea Issaias Afewerki). La lotta di liberazione dell’Eritrea dall’Etiopia assume dunque tratti di ideologia anticoloniale ed antiimperialista. Negli anni Ottanta del Novecento, i due fronti si trovano coinvolti in una guerra civile che li vede contrapposti. Il Fronte Popolare di Liberazione dell’Eritrea si allea con il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (FPLT) e sconfigge dapprima il FLE e, successivamente, il governo etiopico del Derg: il 24 maggio del 1991 le truppe del FPLE entrano trionfalmente ad Asmara, mentre le truppe del FPLT avevano occupato Addis Abeba. Inizia dunque una nuova fase della storia dei due paesi, poiché vi è una separazione sancita dal referendum eritreo del 1993, al quale fa seguito un periodo di relativa tranquillità, durante il quale l’Etiopia usa anche il porto marittimo di Assab, in Eritrea, non avendo essa sbocchi sul mare. In Etiopia il governo era stato formato dagli ex-guerriglieri del FPLT, mentre ad Asmara si insediano i combattenti del FPLE, che si costituisce come partito unico alla guida del paese nel 1994 cambiando nome, in un congresso a Nakfa (luogo simbolo dei martiri della lotta di indipendenza), in Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia. La guida venne affidata ancora ad Issaias Afewerki. Nel 1997 viene stilata la costituzione, con la partecipazione di una rappresentanza dei gruppi diasporici , ma di fatto non è mai stata applicata in Eritrea. Nel 1998, infatti, nell’area intorno al piccolo villaggio di Badme, esplose un conflitto per i confini che diede luogo ad uno scontro bellico con l’Etiopia. La guerra con l’Etiopia è stato uno dei conflitti più terribili dell’Africa contemporanea, con un centinaio di migliaia di morti da entrambi i lati. La guerra è stata anche uno spartiacque nella storia recente del paese e del Corno d’Africa in generale, poiché, a partire da quegli eventi, in Eritrea ha luogo una decisa svolta dittatoriale. La guerra ha significato non solo decine di migliaia di vittime, terrore e deportazioni (dopo l’indipendenza molti etiopici erano stati espulsi dal paese, con la guerra questo processo si acutizza e anche molti eritrei vengono espulsi dall’Etiopia), ma ha anche creato di fatto la situazione attuale: con la fine della guerra, l’esercito non viene smobilitato e tutti i cittadini dai 18 ai 50 anni (40 per le donne) sono inseriti nell’Eritrean Defense Force e nel National Service, ufficialmente, per il timore di un nuovo attacco etiopico. La loro paga è bassa (25$ dollari al mese) ed ogni tipo di dissenso, vero o presunto, è punito con la punizione fisica, la tortura, la mutilazione, la morte ed il carcere (famigerate sono le carceri eritree: container sotterranei nel deserto eritreo a condizioni climatiche insopportabili). Nel 2001, inoltre, undici ministri del governo vengono arrestati e imprigionati senza formali capi di imputazione. Nel 2002 tutti i giornali non legati al partito sono stati chiusi e tutte le chiese protestanti, pentecostali, così come le sale dei testimoni di Geova, sono state bandite. Nel 2006 il patriarca ortodosso Antonios viene arrestato per aver criticato le ingerenze governative negli affari della chiesa. Il più importante fenomeno che interessa l’Eritrea in questo momento è l’emigrazione: l’unica possibilità di sfuggire al servizio militare e alla persecuzione è la fuga dal paese. Secondo l’UNHCR, dal 1999 ad oggi 300.000 rifugiati eritrei sono stati riconosciuti nel mondo. Una cifra importante, se si considera in relazione alla popolazione eritrea, ma che assume ulteriore significatività se si tiene in conto di coloro che sono fuggiti e non ancora registrati in nessun altro paese e di coloro che sono morti durante il pericoloso tragitto. Coloro che decidono di intraprendere questa strada oltrepassano, dunque, illegalmente il confine verso il Sudan o l’Etiopia, iniziando in questo modo il loro percorso verso l’Europa o, talvolta, Israele. Da quei luoghi si prova successivamente, infatti, ad attraversare il grande deserto del Sahara per raggiungere la Libia, da dove ci si può imbarcare per Lampedusa su quelle che nel linguaggio giornalistico italiano sono definite “carrette del mare”. La descrizione sintetica ed asciutta di questo viaggio non deve però trarre in inganno: non si tratta di un semplice percorso da un punto all’altro, bensì di un viaggio molto complesso, costoso, pieno di barriere, e, soprattutto, molto pericoloso. Le condizioni di transito nel deserto sono ad altissimo rischio di morte, come testimoniato già nel 2007 dal bel reportage di Fabrizio Gatti, Bilal, mentre la vita in Libia è segnata da arresti arbitrari, violenze e furti; la traversata in mare per le coste italiane è purtroppo ormai famosa per la quantità di morti che produce e per le enormi sofferenze ad essi associate. In Italia, gli eritrei possono effettuare la loro richiesta di asilo che viene quasi sempre loro concesso, a causa delle note condizioni di vita in Eritrea, o sotto la forma dello status di rifugiato, oppure, più spesso, sotto la forma della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria, forme minore di protezione in vigore dal 2007.
Figura 2: principali traiettorie di viaggio degli eritrei Come si vede dalla figura 2 le principali traiettorie di viaggio, seguono il percorso sopradescritto. La particolarità è che l’Italia, sebbene sia la prima meta europea raggiungibile, è considerata come un paese di transito verso i paesi nord-europei e la Gran Bretagna, che offrono più possibilità lavorative e di inserimento. Un altro percorso, meno frequentato, prevede la partenza dall’Europa verso il Messico e, di lì, il passaggio verso gli Stati Uniti. Spesso in questa traiettoria migratoria si inseriscono anche gli etiopici, che decidono di emigrare per problemi legati alla discriminazione di alcune etnie, o, più spesso, spinti da quell’immaginario in base al quale l’Occidente sarebbe un luogo prospero, pieno di opportunità, dove è facile procurarsi del danaro. Una parte cospicua di questa migrazione proviene dalla regione settentrionale del Tigray che, come spiegato più sopra, ha molti legami con l’Eritrea. Proprio grazie a questa affinità, soprattutto linguistica e religiosa, è possibile, per i tigrini etiopici, proiettarsi nelle reti migratorie eritree, riattualizzando spesso vecchi legami di parentela. 1) La capitale del regno era la omonima città di Axum, nell’attuale Tigray, la regione settentrionale dell’Etiopia.