Non in nome nostro

Cutro 2023

Cutro 2023

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici, dalle volontarie e dai volontari, di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Rosarno ed è stato scritto dall’operatrice MH e ricercatrice sociale Miriam Bovi.

Roma (NEV), 28 febbraio 2023 –

Cutro, notte fra il 25 e il 26 febbraio 2023, ore 3:47 – La barca battente bandiera turca sfiora la costa, dopo circa 4 giorni di viaggio. Ci sono 185 persone a bordo, secondo il racconto di chi è ancora in vita, quasi tutte nascoste nella stiva. In preda alla gioia e all’emozione di un arrivo tanto atteso, c’è chi inizia a fare video, chi chiama i famigliari, chi canta e sorride, la speranza si avvicina. Dopo una traversata fatta di stenti e di paura, tutt* accatastat* in uno spazio troppo piccolo. Migliaia di euro per avere la possibilità di raggiungere l’Italia, in mancanza di vie legali. Via terra si spende di meno ma il cammino è lungo. Chi cade e resta indietro muore, non ci si può fermare. Forse con questa barca si può arrivare in Italia e cercare rifugio, ripartire verso un quotidiano diverso. Magari chi la pilota riesce ad evitare i controlli delle autorità e il rischio di essere rimandat* indietro. Ce l’hanno quasi fatta a raggiungere quell’Europa in cui ripongono tutta la loro fiducia. Forse…

E’ notte fonda, il mare inizia ad agitarsi. Si intravedono luci. La rotta cambia di colpo. La barca non regge, si dirige verso la scogliera. Non c’è più niente da fare, la forza del mare spinge l’imbarcazione sugli scogli. E’ distrutta, i pezzi di legno sono ovunque, così come le persone.

Le grida di disperazione si sostituiscono alla gioia, la corrente è forte, le onde si alzano. Nessun soccorso in vista, solo un nero spettrale che va dal cielo al mare. L’acqua è congelata e i bambini iniziano a desistere. Mamme, papà, famiglie, bimbe e bimbi, minori, adulte e adulti, impotenti di fronte a questa tragedia. Un pescatore del posto non ha dormito per giorni, dopo quella notte. Attratto dalle urla, interviene portando alcune persone sulla riva, con l’aiuto di una corda. Un bambino prima respirava, ora non più. Con lui tante altre vittime di una strage che poteva essere evitata.

L’aereo di Frontex segnala la barca a 40 miglia dalla costa ‘in buone condizioni di navigazione’, in zona Sar (Search and rescue) italiana, con tanto di rilevatore termico che evidenzia il sovraccarico. Nessuna segnalazione di sos da Roma, nonostante la definizione giuridica di ‘emergenza’ che si applica a qualsiasi imbarcazione in distress, in difficoltà e prossima al naufragio, con più persone del dovuto a bordo. Poco prima del naufragio, a diverse ore dalla segnalazione, due vedette della Guardia di Finanza costrette a rientrare a causa dell’agitazione del mare. La Guardia Costiera non esce, con le sue motovedette provviste di gommoni specifici per resistere in condizioni simili. Si arriva ai decessi di circa 79 persone ad oggi, di cui quasi la metà minori e molt* bambin* tra 0 e 12 anni.

A quindici giorni dall’accaduto, le ricerche dei corpi dispersi continuano, ogni giorno veniamo a conoscenza di altre morti nel Mediterraneo, oltre a quelle già avvenute negli anni precedenti, tra cui il naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, in cui morirono 368 persone. Altre e altri invece, come la barca della mattina dell’11 marzo 2023, vengono riportat* indietro – presso le prigioni libiche – dalla cosiddetta guardia costiera libica.

Questa è la situazione attuale, generata da una gestione emergenziale delle vie ‘illegali’ di salvezza o di decesso, a cui non corrispondono altrettante alternative considerate ‘legali’. Visti negati, corruzione, guerre, fame, malattie, terremoti…le persone vengono bloccate mentre beni e prodotti possono passare regolarmente. Nessuna procedura automatica nell’emergenza, solo criticità e decisioni situazionali che, in questo caso, causano la morte  di 79 persone, accertate fino ad ora, sulle coste calabresi.

Quella che somiglia a una strage di Stato si trasforma in qualche modo in una passerella di bandiere e strisce tricolore in cui l’unica responsabilità pare affidata ai presunti scafisti. Così come ‘la lotta al caporalato’ dietro la quale si nasconde la dignità mancata dei ghetti e degli alloggi informali, in condizioni igieniche precarie e disumane. Un capitale consistente destinato all’esternalizzazione delle frontiere europee e ai rimpatri che spesso si sostituiscono all’accoglienza e complicano la resa dei corpi e del dolore alle famiglie coinvolte. La normalizzazione del sistema di ‘inospitalità’ colpisce anche le sopravvissute e i sopravvissuti di questa tragedia, inizialmente al Cara di Crotone, poi spostat* in seguito alla mobilitazione della Rete 26 febbraio.

Su quella spiaggia, fra lo sconcerto e lo shock di chi si è salvat*, la necessità dei mediatori sembra passare per questa rete e non dalle istituzioni, così come la richiesta di restituire la parola e il dolore alle famiglie coinvolte.

La frontiera uccide. La spettacolarizzazione e l’appropriazione dei corpi annienta. Non è stato semplice ottenere il rimpatrio delle salme, a seguito della proposta di allontanarle a Bologna.

Al corteo dell’11 marzo siamo tant* e la manifestazione è piuttosto silenziosa. L’arrivo in spiaggia ha il suono della preghiera musulmana. Le voci delle e dei superstiti raccontano. Le scuse per il disturbo e l’umiltà di quei discorsi fanno risuonare l’unico desiderio di poter celebrare le perdite subite secondo la volontà di ogni famiglia.

Ci dicono anche che sanno che i politici non rappresentano tutta l’Italia, lo hanno visto e sentito sulla propria pelle. Ci ringraziano. Un minuto di silenzio, in ginocchio, per la bimba di circa 5 anni ritrovata in quelle ore, per il cadavere dell’uomo fra gli scogli, per tutte le vittime della frontiera. Sullo sfondo, una costa adornata di fiori, di sguardi persi nel vuoto e nell’emozione, contemplando quelle acque agitate dal vento. Peluches, pezzi di legno, cumuli di vestiti, croci, rose, tulipani, cartelli di denuncia per i rappresentanti delle istituzioni che non hanno neanche avuto il coraggio di avvicinarsi, o tacere, o prendersi le proprie responsabilità, o dare le dimissioni. Le forze dell’ordine rimangono ai bordi della spiaggia, non lontane da quella via piena di materassi e mobili, forse a causa di una recente alluvione in un luogo troppo piccolo per portare il peso di una tragedia così grande.

Il nostro pensiero in un momento di solidarietà al “giardino della memoria” di San Ferdinando, a Scicli e a Lampedusa, con la parola aperta per condividere questo dolore e per non dimenticarci della nostra storia, delle nostre reazioni e delle pratiche quotidiane di accoglienza e inclusione, a cominciare dal nostro sguardo e da un insieme di candeline pronte a diventare un’unica fiamma.

Non in nome nostro.

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