La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Lampedusa ed è stato scritto dalla volontaria Miriam Bovi
Lampedusa (NEV), 18 agosto 2021 – Aspettiamo al molo Favaloro, dove le imbarcazioni della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera fanno avanti e indietro, tornando colme di tutte quelle persone che raggiungono l’Italia su delle barchette instabili o piccoli gommoni con un motore.
Davanti a noi un insieme colorato di quelle che hanno già attraccato, spesso in legno, a volte l’una sopra l’altra, tettini e non, una è storta. Al loro interno, quel che rimane di una rotta estenuante. Giubbotti di salvataggio, braccioli, vestiti, buste di merendine, le tute bianche degli operatori delle navi di salvataggio, le mascherine, i guanti in lattice, bottigliette vuote, sacchi di plastica neri, oggetti inumiditi, bustine di ogni genere e taniche di benzina, le tracce di un’esperienza che cambia la vita.
Sulla spiaggetta accanto al molo ci sono altri rifiuti che marcano il passaggio di questi arrivi che sono tutt’altro che eccezionali, nei mesi più caldi di mare piatto si può arrivare anche a più di 20 sbarchi al giorno. È una situazione usuale purtroppo, normalizzata da una gestione ‘emergenziale’ delle migrazioni che si struttura sulla precarietà e l’impegno di una piccola isola, tra hotspot superaffollato e navi da quarantena, al posto di riconsiderare l’accoglienza e la libera circolazione sotto un’ottica più umana e a lungo termine che non dimentichi l’uguaglianza. L’Europa dov’è in questi casi?
Sacchi neri pieni di giubbotti da salvataggio e immondizia. Vicino alle casse d’acqua, ci sono delle scarpe messe lì ad asciugare, dimenticate. Cappelli e occhiali da sole lasciati in un angolo, accanto a un paio di ciabattine rotte. Vestiti bagnati dalla traversata marina, perché le onde non risparmiano nessuno e a volte non lasciano passare, si prendono tutto, anche i corpi, alcuni rimasti in fondo al mare, senza nome.
Le taniche di benzina trovate sulle imbarcazioni vengono allineate, a poco a poco, vicino l’armadietto dove teniamo le coperte termiche, i guanti, qualche mascherina, i bicchieri, le buste della spazzatura, i succhi di frutta, le merendine, i giochini e i gessetti, per inventare un istante di fantasia che distragga i bimbi dalla paura che leggiamo nei loro occhi. Le bottiglie d’acqua da distribuire sono ai lati del nostro ‘scrigno’ di un metallo grigio, cerchiamo di coprirle con dei cartoni per proteggerle da questo sole cocente.
Dietro di noi il mare, all’arrivo delle barche corrisponde una sirena, le vediamo arrivare da lontano. L’ambulanza si posiziona, insieme ai pulmini che si dirigeranno all’hot-spot. Il personale medico è in prima linea, insieme all’UNHCR.
Le forze dell’ordine si schierano sul molo e gli operatori iniziano a organizzarsi. Donne e bambini scendono per primi. In questi giorni, arrivano quasi tutti dalla Tunisia. Un bambino di 8-10 anni piange, pensando di aver perso il papà che aspetta il suo turno per la discesa. Non posso dimenticare quegli occhi profondi, scuri e dal taglio orientale, della bimba che sceglie il peluche del cavalluccio marino rosa. Lo tiene stretto e mi guarda fisso, mi penetra con la sua tenerezza, senza parlare accenna un sorriso. Chissà cosa hanno dovuto vedere quegli occhi. Attentissima, segue i suoi cari, pur rimanendo frastornata dal caos.
Una donna piange guardandomi dal pulmino «Acqua, acqua», mi dice mentre va via, la nostra piccola parola che ha creato, da subito, un legame. Scherzavamo sulle lingue, scambiandoci le poche espressioni che conosciamo, lei in italiano e io in arabo. Ridendo, ci convinciamo che può funzionare! Quella commozione non ha bisogno di didascalie, a stento riesco a trattenermi. Probabilmente pensava che l’avremmo seguita, che quell’atmosfera distesa e gioiosa di quel breve benvenuto l’avrebbe accompagnata durante tutto il suo percorso qui. A una donna con quegli occhi e quell’età le cose non sfuggono. In quelle lacrime c’è la consapevolezza di un cambio di approccio, l’inizio di un qualcosa di oscuro e di ignoto, con volti sempre nuovi.
Qualcuno vomita a causa del mal di mare o di un’insolazione, forse una congestione, non so. Fa caldissimo, siamo tutti abbastanza provati dalla stanchezza.
Arrivano molte donne che ci chiedono un assorbente che non abbiamo. Quando escono dal bagno cambiate, sembrano delle principesse. Con tutti quei tessuti colorati, sfilano davanti a noi, siamo tra ragazze e ridiamo tantissimo! Una donna, incinta al nono mese, non entra nel bagno, non ha le ciabatte. Un’operatrice di Save the Children arriva per mano a una ragazza che gliela prende, cogliendola di sorpresa e finendo per tenerle anche la porta che non si chiude, con gli occhi lucidi. Lei è molto spaventata e anche un semplice gesto può confortarla.
Una bambina di 4 anni circa, ricciolina chiara, con degli occhi grandi e scuri, beve il succo di frutta dalle mie mani. Da quando mi vede, cerca di spostarmi la mascherina per darmi dei bacetti, non sa bene come farlo. Mi guarda i guanti incuriosita ma poi mi sorride di nuovo. Ai bimbi diamo dei gessetti e ci mettiamo a disegnare sul molo, mentre aspettano di salire sui pulmini. Barche, macchine, sole, cuori e linee, lei aspetta che le dica «Brava!» dopo ogni linea che disegna, con un rosso sgargiante sull’asfalto. Un bimbo che non sta ancora in piedi cerca di prenderle il giochino che ha ricevuto ma lei se lo riprende, riconsegnando al piccolo il suo elefantino. I bambini stanno sognando e giocando, tra le taniche di benzina e un futuro incerto. I sorrisi delle donne o delle famiglie che li accompagnano sono un grande regalo, grazie.