Editoriale di Marta Bernardini per Riforma: “Sul molo ci siamo come chiese, in quel luogo scomodo, doloroso, testimone della resistenza di fratelli e sorelle in viaggio per la loro vita. La strada la possiamo indicare anche noi, con la nostra azione, le nostre scelte, spinti dalla fede e dalla chiarezza del messaggio evangelico di amarci l’uno con l’altra, operando per la giustizia”.
“In queste ore l’Europa sta morendo a Lampedusa”, questo l’inizio di una lettera che nei giorni scorsi la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) ha inviato a tutte le chiese sorelle in Europa. Esattamente questa è stata la sensazione per noi operatori e operatrici di Mediterranean Hope, programma rifugiati e migranti della FCEI, che dal 2014 è attivo con un Osservatorio sulle Migrazioni nella piccola isola nel cuore del Mediterraneo.
In pochi giorni più di duemila persone sono arrivate a Lampedusa, e la notizia non è mancata di irrompere nelle nostre case, spesso incentrata sull’eccezionalità e l’emergenza della situazione. Un fenomeno che si verifica da più di vent’anni non è più un’emergenza, è strutturale e come tale richiede risposte pianificate e lungimiranti. Abbiamo assistito all’arrivo di persone, donne, spesso incinte, bambini e bambine, uomini, fortemente provati da un viaggio mortale e dalle condizioni disumane di detenzione in Libia. Queste stesse persone, che ci hanno raccontato le loro storie, di violenze, soprusi, uccisioni, hanno sostato per giorni sul molo di Lampedusa esposte al vento, al sole, in mezzo all’immondizia, taniche di benzina, assenza di bagni dignitosi. Mentre l’Hotspot, il centro di prima identificazione, era già sovraccarico, costringendo i profughi a dormire all’aperto e in condizioni inadeguate. Persone. Una giovane donna somala, che non si reggeva in piedi per le percosse subite in Libia e traumatizzata dall’uccisione della sorella avvenuta davanti ai suoi occhi. Il piccolo Ismail, preso in braccio dal papà, entrambi scalzi, i visi stremati e scottati dal sole, che ha sorriso scoprendo di essere arrivato in Italia. Un giovane ragazzo somalo, in Libia dal 2017, che ci ha mostrato cicatrici e ferite, evidenti segni di tortura, visibili e invisibili.
Ogni volta che arriva qualcuno sul molo di Lampedusa, pensiamo a tutte le persone che sono ancora in mare, ci chiediamo se ce la faranno e sappiamo che molte non arriveranno mai. Pensiamo a Ismail che avrebbe potuto non farcela con il suo papà. Dall’inizio dell’anno circa 600 persone hanno perso la vita nella traversata del Mediterraneo. L’emergenza è che le persone muoiono ancora in mare, che arrivano spezzate dalla Libia, che vengono inghiottite dalla violenza della frontiera senza memoria, lacrime o sepoltura. Mentre le coperte termiche che abbiamo distribuito incessantemente insieme a tè caldo, cibo e acqua si increspano nel vento, la frustrazione per l’insensatezza di quello che è sotto i nostri occhi, da anni, brucia come il sole africano di maggio. Le persone dovrebbero avere la libertà di decidere per il proprio futuro, di autodeterminarsi, di spostarsi e di partire con un visto legale e in sicurezza. L’Italia e l’Europa non possono esimersi dalle loro responsabilità, improvvisando risposte temporanee, discutendo di cifre mentre le persone perdono la vita in un mare controllato ma privo di soccorsi. Le ONG che fanno salvataggi in mare sono bloccate nei porti per lunghi periodi, a causa di fermi amministrativi, senza che venga predisposta nessuna alternativa per salvare vite. L’accoglienza, per chi ha la fortuna di arrivare, è poi quella inaccettabile vista in questi giorni, affidata a una mala gestione e appiattita sull’emergenza sanitaria o sulla scusa della sicurezza.
Riprendendo la lettera della FCEI, come chiese abbiamo la responsabilità e “l’autorità morale per sollevare una questione umanitaria, anche se politicamente controversa. Infatti, agiamo perché siamo mossi dal messaggio cristiano di amore, compassione e giustizia che, con i pochi strumenti a nostra disposizione, abbiamo cercato di testimoniare sul molo di Lampedusa”. Sul molo ci siamo come chiese, in quel luogo scomodo, doloroso, testimone della resistenza di fratelli e sorelle in viaggio per la loro vita. La strada la possiamo indicare anche noi, con la nostra azione, le nostre scelte, spinti dalla fede e dalla chiarezza del messaggio evangelico di amarci l’uno con l’altra, operando per la giustizia perché “[…] in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me” (Mt. 25, 40). Per Ismail e tutte le vite che hanno valore, servono corridoi umanitari e vie legali di accesso, servono soccorsi in mare e serve un’accoglienza nel rispetto della dignità di ogni essere umano.