La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici, dalle volontarie e dai volontari, di Mediterranean Hope (MH), il programma sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Scicli ed è stato scritto da Barbara Battaglia.
Roma (NEV), 15 dicembre 2024 – A. ha 42 anni, è della Repubblica Centrafricana, la prima cosa che mi racconta è che suo papà nel 2013 “ha trovato la morte”. Per quello, dice, una volta rimasto solo, senza i suoi genitori, ha deciso di partire e attraversato i confini di Camerun, Nigeria e Benin, in moto e in autobus. Ha lavorato per sei anni, come apprendista, è un artigiano dell’alluminio, dice che non vede l’ora di condividere quello che ha imparato a fare, che sa montare e riparare finestre e porte. Poi mi mostra un video sul suo cellulare, è quando ha visto per la prima volta il mare, pochi giorni fa. Ci è andato a piedi, 8 chilometri all’andata e 8 al ritorno. Nel video non ride, non dice nulla, ma alle sue spalle c’è il mare, che non aveva mai visto prima.
A. vive alla Casa delle culture, a Scicli, in provincia di Ragusa, un progetto nato all’interno di Mediterranean Hope, programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, che proprio in questi giorni compie i suoi primi dieci anni. In questa casa, con A. vivono altre persone, in particolare il gruppo che abbiamo incontrato è arrivato con uno dei corridoi umanitari realizzati dalle chiese protestanti, poco più di due mesi fa. Hanno ottenuto tutte lo status di rifugiato.
Parla in francese anche A., 25 anni, proveniente dal Mali, dalla città di Gao, che racconta di aver fatto l’autista di camion. Parla di conflitti, di una guerra, di un periodo in cui ha perso tutto, di violenze che ha subito, di persone che lo hanno aggredito e lo hanno picchiato più volte e minacciato con un coltello, gli hanno fatto dei tagli, mi fa vedere la foto di quello sul dito, con la pelle viva. Parla di sua mamma, che non c’è più, dice che si ricorda spesso di lei, che pensa spesso alla mamma. Mi dice di voler diventare “un buon cittadino”, vuole un lavoro. Dice che negli ultimi due mesi ha trovato in qualche modo la pace, si sente di avere “pas de souci“, nessun problema.
O. è una donna sudanese, ha 30 anni e cinque figli, cinque bambini di 2,4,5,6 e 8 anni. Con lei il più piccolo. Il marito è stato fatto sparire, lei lo ha cercato ma non sa, letteralmente, che fine abbia fatto. Lei coi bimbi hanno attraversato il deserto, poi vissuto in Niger. Non avevano un tetto sopra la testa, né cibo, né acqua. Ricorda il freddo che faceva la notte, quando dormivano tutti sotto un albero. Ma lei in realtà non dormiva, vegliava i suoi figli, non riusciva mai a riposarsi davvero, e se si addormentava aveva spesso gli incubi. Ora, mi dice, ha ripreso a dormire e si alza solo per fare la preghiera, mentre i suoi bambini sono accanto a lei, in un letto, ora. Parla con un filo di voce. Le chiedo quali sono i suoi desideri. Mi dice che aveva dei sogni ma che prima di tutto, sopra ogni cosa, per lei vengono i suoi figli – mi guarda dritto negli occhi, come non ha mai fatto prima nei minuti che abbiamo trascorso insieme -, non vuole che soffrano quello che ha sofferto lei. Il suo sogno era salvare sua madre, non ci è riuscita. Dice che le piace prendersi cura delle persone, vorrebbe lavorare in ambito sanitario. Suo padre era un insegnante, sa che è importante studiare.
A., 30 anni, eritreo, ha fatto le scuole elementari, poi in Sudan ha lavorato come meccanico e prima ancora come contadino. E’ stato in Sudan, in Libia, in Niger. “Ho fatto il mio dovere”, dice. Poi, per delle “circostanze”, finisce in Libia. Per due anni. “I primi quattro mesi ho lavorato e riuscivo a mettere via i soldi per partire via mare ma non ci sono riuscito. Ci hanno presi e portato in carcere. Ci sono stato per un anno. Ho sofferto di tutto, torture, violenze. Non c’è una persona in Libia che non sia stata in galera e non auguro a nessuno di stare in quel Paese”. Poche parole, per descrivere quell’abisso, mentre molte di più ne trova per descrivere il presente, l’Italia: “mi piace tutto, avevo delle aspettative che sono state rispettate, mi sento in buone mani, voglio fare il meccanico”, dice, sorridendo. Gli chiedo se ha qualche altro sogno, oltre a quello di fare il meccanico. Mi risponde che vorrebbe far venire suo fratello, qui, in Italia, il suo sogno è rivedere suo fratello minore e riuscire a portarlo in Europa. Il ricongiungimento familiare non è previsto per fratelli e sorelle, il mediatore linguistico e culturale che è presente glielo spiegherà, forse lo ha già fatto, e le possibilità di arrivare in sicurezza in Italia sono poche.
Gli chiedo qual è il momento più bello della sua vita, quello che ricorda. Non capisce. Sorride, imbarazzato, ci pensa un po’, cerco di fargli capire cosa intendo, per felicità. Mi dice che è stato quando gli hanno detto che sarebbe venuto in Italia.