La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici, dalle volontarie e dai volontari, di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Beirut ed è stato scritto da Marta Barabino, dopo una breve missione svolta insieme al medico Luciano Griso in Siria, grazie alla collaborazione con Terre des Hommes.
Roma (NEV), 10 maggio 2023 – Undici checkpoint per arrivare fino a Damasco. Nel viaggio di ritorno ho smesso di contarli. “Checkpoint”, che poi la metà delle volte sono baracchette di lamiera che da lontano sembrano delle latrine in mezzo alla strada, altre volte invece c’è proprio la stazione di blocco, tute verde militare, jersey e sbarramenti di varia sorta, armi qua e là, a volte imbracciate. Tanti occhi che guardano l’autista, poi noi, poi dietro. Uno di loro controlla il visto. Avanziamo di 20 metri e uno controlla i passaporti, altri 30 metri e controllano le valigie. Spegni il motore, apri il bagagliaio, apri le valigie, che a quel punto restano aperte per tutto il viaggio per fare prima. A ognuno di questi passaggi insieme ai documenti escono dal nostro finestrino 2000 lire, o un pacchetto di sigarette, e tanti ringraziamenti e convenevoli in arabo. L’autista sventola il visto che ormai è un foglio stropicciato ma è il nostro lasciapassare.
Avevamo anche comprato delle taniche di benzina in Libano, costa meno evidentemente, e ovviamente sono richieste spiegazioni anche su quelle. Viaggiavamo con 4 o 5 taniche blu piene di benzina sotto i sedili (safety first), l’odore ci ha accompagnato per tutta la missione.
Ci arrivano messaggi che avvisano di scosse attorno alla magnitudo 4 nell’area di Hama, Aleppo e nelle zone costiere, proprio dove avremmo dovuto andare. Avremmo dovuto, perché l’approval non è arrivato, sabato dovevano darcelo domenica, domenica lo aspettavamo per lunedì, e martedì era già toppo tardi.
L’ingresso nel paese è colorato, per così dire. Entriamo in uffici degli anni ‘60, lo stesso anno in cui sono stati puliti per l’ultima volta, e inizia un ping-pong tra uffici, sportelli, fogli mancanti, tagliandi, dammi il visto, fammi vedere il passaporto, recupera il visto ma mi serve ancora il passaporto, il libretto dell’auto, ma dove andate? E da dove venite? che lavoro fanno gli italiani? Andate nell’altro ufficio, fatevi stampare il documento poi tornate che noi mettiamo il timbro, ah ma è scritto con alfabeto latino, no a noi serve in arabo aspetta… Baabrino?
Un’ora e mezza senza capire se effettivamente mancasse qualcosa o se fosse prassi. Il concetto di “fare la fila” non esiste quindi bisogna guadagnarsi il proprio turno, mentre altra gente entra, chiede, saluta, passa davanti. Poi controllo bagagli, apri le valigie, trafficaci un po’ dentro. Ci metteremo il tempo che dobbiamo metterci, finché ci fanno passare va bene. Ma mentalmente è una maratona, una prova di resistenza per chiunque, non finisce mai e forse è proprio quello il perno di tutto questo sistema. Il controllo è capillare, diffuso, preciso; sbrigativo solo se lo decidono loro, che passano giornate sulle strade in mezzo al nulla in questi gabbiotti arrangiati come possono, o con tappeti e coperte stesi in terra per il turno del riposo, e alla sera devono illuminare con le torce dei loro telefoni per controllare i documenti; alcuni sono dei ragazzini che sembrano capitati lì per caso.
È tutta una questione di geografia, sempre e comunque.
“Il fallimento è di essere nato… qui” mi dice A. mettendosi lo zaino in spalla. Lo salutiamo alla frontiera perché non lo fanno entrare, ha tutti i documenti, il contratto di lavoro, il badge, ma non importa. Gli vengono fatte domande senza senso, tipo “come hai ottenuto il posto di lavoro?” e altre domande fatte tanto per farci perdere tempo. “Chiamiamo a Beirut e vi facciamo sapere”, ci tengono lì in mezzo a ‘sto spiazzo pieno di spazzatura, tre cani randagi malmessi frugano nel mucchio. Dietro di noi il mare, altra frontiera forse ancora più stronza. Ma lui non lo sa, il mare non lo sa. Loro invece sì e la frontiera sulla terra è violenta, ha i suoi colori, è chiara e visibile, si impone proprio come si impongono i muri, i fili spinati, gli sbarramenti.
E non importa se hai tutto in regola, tu oggi non passi. Resti qui, mi dispiace, con un’espressione che rivela tutto tranne che dispiacere. La fortuna, la vita, la libertà, dipendono tutte dalla geografia.
E mentre costeggiamo il mare che tocca la costa a nord ovest del Libano ripenso alle parole che A. mi ha detto due giorni fa, ci eravamo appena conosciuti: “Amate l’Italia, mi raccomando. Anche nel caso in cui ci fosse un governo che non vi piace, amatela. I governi passano. Anche se c’è la guerra, amate l’Italia. Ma non fate finta di amarla, eh Marta! Non fate come la Siria, che con la scusa di amare la Siria noi abbiamo rovinato il Paese”. E continua a scusarsi, sospirando di come le cose non funzionino “siamo in Siria, abbiate pazienza”, “noi aspettiamo, la nostra vita è rimasta così. Noi aspettiamo. Siamo in attesa. La benzina, l’elettricità, le comunicazioni…”, e oggi dice anche:
Ognuno ha le sue ma le mie non competono neanche un po’ con le sue. E devono esserci enormi ragioni, principi, ideali che ti devono spingere a rimanere in Paesi come questo, che ti portano all’esaurimento e capisci che non devi più trovare le ragioni di una negazione, di un permesso mancato, di una risposta non data, di una spiegazione non fornita: devi fare i conti con la totale illogicità di tutto un sistema che non sa neanche lui in che direzione sta andando. Non ha senso chiedere il perché o il per come, non ha senso insistere, non importa saper parlare inglese, francese, arabo. Semplicemente c’è qualcuno che ha del potere, più o meno ampio, e sa che può esercitarlo a proprio piacimento, e comunque non ti dovrà spiegazioni, perché è così, perché me lo hanno detto, perché sì, perché no. Si aspetta e si spera di beccare quello che oggi è in buona, che non ha voglia di trovare il cavillo, a cui sono state allungate abbastanza banconote sotto i documenti e i passaporti per poter passare più velocemente e che quindi bene o male la sua giornata se l’è fatta.
La missione è consistita letteralmente nell’avere a che fare con questa realtà, scontrarsi fisicamente con la frontiera, con le leggi degli uomini, come piace chiamarle a Francesco, con il potere degli uomini, aggiungerei. È stata una rincorsa di permessi non concessi, di richieste di visto dimenticate, di documenti richiesti che non dovevano essere richiesti, di mancata libertà di circolazione. Per la prima volta ho fatto esperienza della negazione della tanto conclamata libertà di movimento, noi, dall’Europa, con passaporto italiano. Ed è una frustrazione che brucia. Così come è una frustrazione salutare qualcuno alla frontiera, perché noi possiamo passare e lui no. Salutarci tra jersey dipinti di bianco rosso e nero, tute militari e un filo spinato che ferisce il tramonto. È la mortificazione della natura dell’essere umano. E penso al popolo palestinese, penso a chi è abbandonato alle porte dell’Europa, sulle isole e nei campi, a chi aspetta dietro alle griglie e alle recinzioni, a chi attraversa boschi disseminati di mine, a chi aspetta il mare calmo e abbastanza soldi per pagare un viaggio di sola andata, a chi si perde nel deserto e poi trova un muro.
Mi chiedo come si faccia a vivere così, continuo a chiedermelo. E mi ci ha fatto pensare A., che è vero che “uno è di dove si sente meglio” ma a volte uno è di dove sente di dover stare.