Uno sguardo dalla Tunisia (seconda ed ultima parte)

Tunisia_D'Ambrosio

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici, dalle volontarie e dai volontari, di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Lampedusa ed è un report – in due parti – scritto da Giovanni D’Ambrosio e Laura Guani dopo una missione in Tunisia.

Le partenze da Sfax.

“Volete andare a vedere da dove partono?”. W. è un giornalista per una radio locale. Il 16 marzo 2023 ci ha dato appuntamento nel piazzale di una stazione di benzina lungo la provinciale che da Sfax punta a nord, verso Mehdia, ed è lì che lo conosciamo. La sua è una famiglia di pescatori, suo padre ha ancora una barca da pesca e W. ogni tanto va ancora a pescare ma lui si definisce prima di tutto un giornalista, un attivista e poi un pescatore. “Se ci fermano dovete dire che siete amici miei, tanto mi conoscono e non dovrebbero fare problemi. Ma mi raccomando, quando arriviamo al porto non dovete fare foto. Comunque non preoccupatevi, a quest’ora non è pericoloso. Ma non bisogna assolutamente andarci quando è notte, specialmente nelle notti di bel tempo”. Mentre attraversiamo le campagne dirigendoci verso la costa, W. ci spiega come funziona: i dintorni di Jbeniana, dove ci troviamo ora, sono il principale luogo da cui partono le persone subsahariane e dove queste sostano in attesa che arrivi il momento giusto per partire. Anche alcuni tunisini partono da qua, ma è diverso, “loro non usano le barche in metallo”. Anche W. ha notato il cambiamento causato dall’utilizzo delle barche in metallo. “Ci mettono 6 ore a costruirne una, mentre per quelle in legno ci voleva più di un mese e servivano dei professionisti. Ora basta avere un saldatore. Quando c’è cattivo tempo le costruiscono dappertutto qui intorno e anche se il governo sta provando a mettere dei divieti nella vendita dei metalli – il cui prezzo al metro negli ultimi mesi ormai è decuplicato – sono molto semplici da eludere”. I paesi intorno, soprattutto i boschi nei dintorni di Msetria, sono luoghi pericolosi, tradizionalmente interessati dal contrabbando di alcool, droga e sigarette. Ultimamente è esploso il business del traffico di persone verso Lampedusa. La prima barca di subsahariani, racconta W., è partita nel 2018. Poi man mano il flusso è aumentato fino all’arrivo delle barche in metallo che ha abbattuto i costi della traversata anche se ne ha moltiplicato i rischi. Ai vecchi contrabbandieri della costa che occasionalmente si occupavano anche di organizzare i viaggi verso Lampedusa, si è sostituita una “new generation” di trafficanti provenienti dai paesi dell’interno che si avvalgono del sostegno di una fitta rete locale che li avvisa degli spostamenti della polizia, della guardia costiera e che si occupa del trasporto delle persone ammassate su pick-up oscurati e della costruzione delle imbarcazioni. Sono tantissimi i gruppi che ormai si dedicano al traffico verso l’Europa, e anche per questo è molto difficile per le autorità arginare il potere crescente. Ci fermiamo con la macchina a pochi metri dal mare. “Questi sono i posti migliori dove partire perché il fondale è bassissimo ed è più semplice mettere la barca in mare”. Chi organizza il traffico usa la costa a partire da poco più a nord di Sfax, Sidi Mansour, fino a Ellouza, dove ci trovavamo ora. Anzi, proprio quel pezzetto di costa dove poggiavamo i piedi era uno dei luoghi più utilizzati dai trafficanti. W. ci mostra dei segni sul terreno. Sono dei solchi rettilinei che partono da una strada sterrata alle nostre spalle e puntano direttamente al mare. “Sono i segni di pochi giorni fà, lasciati dalle barche mentre le spingono in mare. Quando si decide che è il momento, arrivano da quella strada di notte i furgoni con le persone, i pick-up, e vengono fatte scendere rapidamente e poi dei camion coperti che trasportano le barche in metallo. Si poggia la barca utilizzando quei copertoni, vedete – indica dei copertoni mezzi sommersi in mare – si trascina fino al mare, si sale, si avvia il motore e via, verso Lampedusa”.

Risaliamo in macchina e ripartiamo, W. vuole portarci a vedere un altro posto. Il porto di pesca di Ellouza si sviluppa a circa duecento metri dalla costa su una specie di isolotto artificiale collegato alla terra da una strada in mezzo al mare. Prima di entrarci, sulla sinistra c’è una montagna di barche in metallo ammassate l’una sull’altra. E’ il cimitero delle barche, come quello a Lampedusa ma le barche lì raccontano di persone che non ce l’hanno fatta, obbligate a tornare indietro dalla guardia costiera locale. Poco più avanti, accanto a decine di pescherecci, ci sono altri relitti, questa volta di barche provenienti dalla Libia, probabilmente intercettate o recuperate in mare dai tunisini.

Ci prendiamo un caffé nel bar dei pescatori e continuiamo la chiacchierata. “Le autorità fanno quello che possono, ma non hanno neanche i mezzi per riuscire a bloccare tutte le barche che provano a partire. Più che fermare otto o dieci barche al giorno non possono. Spesso, chi organizza la traversata fa partire le barche non il primo giorno di bel tempo, ma il secondo, quando la guardia costiera è più stanca, così sempre più barche riescono a passare. Da ottobre poi, hanno iniziato a partire sempre più persone, e a nessuno frega nulla di loro. Inizialmente, nel 2018, le persone di qui, i pescatori, le persone che vivono nei dintorni gli davano una mano, quando venivano riportati qui, in questo porto, i pescatori gli offrivano da mangiare e da bere, le persone li ospitavano. Ora è un po’ diverso. Non esiste nessuna associazione che si occupa di queste persone quando sono riportate indietro dalla guardia costiera. Semplicemente sono lasciati qui e poi lasciati a loro stessi. Neanche la Croce Rossa ha il budget, dicono, per aiutare le persone sbarcate. E nessuno si occupa di sapere chi sono i morti, che sono sempre di più ultimamente, se ci sono dei parenti o delle persone che li conoscevano. Non so se è vero, ma mi hanno detto che all’ospedale di Sfax ci sarebbero oltre 400 corpi di persone che sono morte tentando la traversata. La settimana scorsa abbiamo recuperato un corpo, mentre nell’ultimo mese se non sbaglio sono stati quattro i corpi recuperati. Quando vedo quelle barche in metallo mi chiedo davvero se chi le ha pensate e realizzate sia un essere umano”.

W., come tantissime persone che vivono nella regione di El-Sahel, la costa, è un pescatore. Ultimamente è sempre più frequente per lui e gli altri incontrare in mare barche di migranti dirette verso l’Europa. “Quando c’è bel tempo”, dice, “non c’è problema anzi, indichiamo la strada e salutiamo, ma spesso se non hanno problemi non si avvicinano neanche e continuano ad andare. Quando li vediamo avvicinarsi sappiamo che hanno bisogno di qualcosa e ci fermiamo per aiutare ma non è sempre facile, anche perché, per esempio, il carburante dei pescherecci non è lo stesso di quello delle barche che usano loro, e quindi spesso non sappiamo cosa fare. Quando al largo c’è brutto tempo cerchiamo di avvertirli, ma spesso non ci credono e non si fermano. Quando la situazione è brutta chiamiamo le autorità ma poi dobbiamo aspettare ore e ore perché non intervengono mai subito, e anche avvicinarsi può essere pericoloso per loro e per noi. Se decidessero di prendersi la barca e proseguire? Alcuni hanno paura anche di questo. Una volta una barca di pescatori che conosco ha trovato in mare tre persone da sole, vive, senza nessuna barca intorno. Poi si è scoperto che la guardia costiera tunisina aveva fatto un salvataggio durante un naufragio, ma non si erano accorti che alcune persone erano in acqua e le avevano lasciate lì. Altre volte sono stati recuperati dei cadaveri, anche di bambini. Quando siamo vicini alle coste italiane capita di chiamare anche la guardia costiera italiana, ma i tunisini hanno paura di essere arrestati, che gli confischino la barca e li portino in Italia. Come si fa a spiegare che hanno solo aiutato?”.

“Rispetto all’inizio di questo flusso migratorio nel 2018, le tariffe si sono abbassate molto”, spiega W. All’epoca si pagavano 5000 dinar tunisini, circa 1480 euro, ora invece costa neanche 1500 dinar a persona, 440 euro. Se si considera che il costo di costruzione e materiali di una barca in metallo su cui viaggiano 40 persone è di 1800 dinar il motore costa 3000 e il carburante 500, il costo totale per chi organizza il viaggio supera di poco i 5000 dinar. Nulla rispetto ai guadagni. I capitani sono spesso senegalesi o gambiani e non c’entrano nulla con la rete di trafficanti: semplicemente non pagano il costo della traversata. Le persone subsahariane si affidano spesso a degli uomini che fanno da intermediari tra loro e i tunisini che organizzano praticamente il viaggio. Ogni tanto pagano direttamente gli intermediari, altre volte invece pagano poco prima di imbarcarsi.

Solidarietà nei confronti della comunità subsahariana

Dopo le dichiarazioni del presidente Saied, parte della società civile tunisina ha risposto manifestando per le strade e attivandosi concretamente per rispondere ai bisogni delle persone coinvolte nelle violenze, negli arresti o rimaste senza casa e senza lavoro. M. racconta della costituzione di un “fronte antifascista” avvenuto poco tempo prima del nostro incontro e che si era posto come obiettivi quelli di offrire una linea telefonica per mandare segnalazioni su violenze, organizzare distribuzione di pacchi alimentari, supporto legale e mediazione con i proprietari di casa. Nonostante la buona volontà di realtà anche più piccole o informali costituite da gruppi di persone che quasi clandestinamente offrono aiuto – ospitalità in casa, sostegno economico, distribuzione di cibo e altri generi di prima necessità – alle persone migranti in difficoltà, appare evidente la paura di esporsi per non essere presi di mira dalla repressione governativa. La solidarietà verso i migranti irregolari è inoltre criminalizzata per legge. Criminalizzazione che si inserisce in un contesto di repressione del dissenso già molto sviluppato.

X