La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). O dalle volontarie e dai volontari che accompagnano per periodi più o meno lunghi il percorso di MH. Oggi “Lo sguardo” proviene da Roma ed è stato scritto dalla volontaria del servizio civile Benedetta Fragomeni.
Roma (NEV), 13 luglio 2022 – Da pochi giorni volontaria e per la prima volta “alla frontiera”. Una proposta accettata immediatamente ma non a cuor leggero, quella di andare ad accogliere il secondo corridoio umanitario in arrivo dalla Libia. Arriviamo a Fiumicino intorno alle 19 il terminal dedicato, tanti volontari e volontarie già all’opera. Uno strano entusiasmo nell’aria, mi guardo intorno, all’inizio un po’ spaesata, cercando di capire cosa posso fare, ognuno sembra avere il suo ruolo. Dopo aver scaricato le casse di cibo e acqua, prepariamo le porzioni di cibo per ognuno, passaggi semplici che mi sembrano avere un peso enorme. Lo scambio con gli altri volontari e volontarie, mediatori e mediatrici alleggerisce l’attesa.
Alle 22 il volo atterra, io dovrò scattare qualche foto quindi andiamo incontro alla navetta che porta 95 persone finalmente al terminal. Si aprono le porte e con calma scendono, sono uomini, donne, famiglie, alzano la testa, si incrociano gli sguardi e sono questi che attireranno la mia attenzione da qui in avanti. Un boato di “ciao”, uno scambio reciproco di entusiasmo. Una piccola sosta nella prima sala, inizio a vagare tra le persone sedute, ancora un po’ incerta. Mi chiama Adam che parla bene inglese, mi chiede dove andrà di preciso, indica il ragazzo seduto accanto a lui “Siamo una coppia omosessuale, vogliamo stare insieme”. Verifichiamo dove saranno ospitati e andranno a Pisa, entrambi, insieme.
La prima persona con cui ho parlato è stata Adam e da lì mi sembrava di sapere esattamente come muovermi.
Entrano nel terminal. Mi colpisce la differenza tra i loro passi, dalla loro camminata sembra trapelare la loro storia. Passi decisi e confusi, rapidi come una corsa e lenti di stanchezza, passi di sedie a rotelle, passi a quattro piedi, di donne che si sostengono, passi sospettosi e saltellanti di bambini.
Si accomodano in questo grande spazio, un’atmosfera timidamente riscaldata da cartelloni di “benvenuto” in tutte le lingue.
Qualcuno si inizia a preparare per i vari controlli medici mentre gli altri si sistemano e noi siamo con loro. Quando ognuno prende il proprio posto finalmente lo scambio si fa più intenso, i mediatori e mediatrici lo rendono più fluido. C’è una mamma con due gemelle di cinque mesi e una bambina di cinque anni con cui inizio a giocare anzi, è lei che inizia, ci rincorriamo, i gesti chiari come parole, nessun ostacolo linguistico a impedirci di giocare insieme.
Nelle ore passate insieme osservo e, anche grazie alle foto scattate, vedo come ognuno abbia una reazione diversa a quello che sta vivendo e mi sembra lampante quanto sia fondamentale osservare, stare nella realtà e partire da quello che è reale per conoscere, approfondire e poi parlarne.
Qualsiasi cosa io possa scrivere mi sembra insufficiente per raccontare cosa è stato questo contatto con la realtà, forse il più stretto che io abbia mai avuto. È stato stare con i piedi per terra, osservare, sentirmi piccola così. È stato un paradosso l’entusiasmo che riempiva il terminal, se paragonato alla storia che immagino abbia portato qui queste persone. È stato toccare con mano quello di cui senti sempre parlare attraverso il filtro di chi, da fuori, racconta.
A inizio giornata mi chiedevo cosa avrei dovuto fare, quale sarebbe stato il mio ruolo, ora penso che ciò che serve fare, in modo più urgente è starci. Fermarsi nelle cose, soprattutto in quelle da cui la maggior parte sceglie di distaccarsi, stare nella realtà e poi partire sempre da lì.