La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Lampedusa ed è stato scritto dall’operatrice Marta Bernardini
Lampedusa (NEV), 10 giugno 2020 – Il sole è caldo e brillante ma per fortuna il vento è quello che rinfresca e accarezza piacevolmente la pelle. L’odore però è acre. E’ quello intenso di plastica e altri materiali bruciati. Respiro dall’interno della mia mascherina e rimango in silenzio. Siamo nella zona di ponente dell’isola, dove si trovavano alcune imbarcazioni di legno che in passato erano servite per far raggiunge Lampedusa da persone in cerca di una vita possibile. Ora ne rimane solo una, intorno terreno bruciato e i resti causati da uno dei due incendi dolosi appiccati qualche giorno fa. L’altro ha colpito il cosiddetto “cimitero delle barche” che invece si trova in paese, al Porto Vecchio. Ma siamo qui, con delle amiche dell’isola, più lontano dal centro abitato per vivere questo momento solo con il rumore del vento.
La stagione estiva è cominciata ma Lampedusa è insolitamente rallentata, le spiagge ancora poco affollate per essere a giugno. Si prospetta un periodo difficile per la fragile economia dell’isola, ormai quasi completamente incentrata sul turismo. Gli ultimi mesi di pandemia, la sospensione dei voli, l’incertezza degli spostamenti, la crisi sanitaria del Covid19 pesano su questa isola nel cuore del Mediterraneo. Nonostante il sole brillante, luci e ombre si posano su questa terra piena di contrasti e contraddizioni. “Lampedusa è spigolosa come uno scoglio: si sbatte”, dirà un’altra amica più tardi, durante l’incontro del Forum Lampedusa Solidale che in questi giorni ha ripreso cautamente a incontrarsi per condividere riflessioni, pensieri, emozioni, idee e azioni come è diventata nostra abitudine da sei anni a questa parte. Le tensioni degli ultimi giorni è innegabile che si sentano, e fanno emergere sensazioni profonde di confusione, turbamento, frustrazione e tante domande senza risposta. Sembrano contrapporsi sentimenti di chiusura ad altri di apertura, come se ci fosse un eterno conflitto tra chi sta dentro e chi sta fuori, tra un “noi” e un “loro”, tra un popolo interno omogeneo e un nemico esterno minaccioso. Ma in questo tumulto di sensazioni rimane per noi un’idea chiara e trasparente come il mare che ci circonda: la vita di tutte le persone che qui vivono e qui approdano ha uguale valore. Lampedusa è una terra che è stata resa di frontiera, costretta ad assumere un ruolo centrale all’interno dei flussi migratori che attraversano il Mediterraneo e che coinvolgono tutto il continente europeo. L’impatto di queste scelte fatte altrove, coinvolge una comunità che, come altre, invece di essere accompagnata e sostenuta, sente il peso di ferite che non si rimarginano. Ma la frustrazione non deve diventare violenza, la rabbia deve essere incanalata in indignazione per i diritti negati, di tutti e non solo di alcuni; lo scontro può diventare dialogo fertile per ritrovare un fermento che faccia immaginare nuove strade possibili.
La sfida è quella di riuscire a comprendere le dolorose contraddizioni che ci attraversano, allontanandosi da retoriche o ideologie di chiusura, per saper riconoscere che le vite delle persone che cercano un percorso di libertà vanno tutelate, che le persone devono essere soccorse in mare e devono poter appoggiare i piedi in una terra di salvezza e di diritti. Lo sguardo e l’impegno si devono rivolgere al garantire vie sicure e legali per tutti e tutte, permettendo di esercitare il diritto di scegliere liberamente dove vivere, se restare o se partire. E intanto vorremmo pensare che la nostra porta è aperta e che le lotte le facciamo insieme.