Tutta colpa dei siriani

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Beirut ed è stato scritto da Barbara Battaglia.

Beirut (NEV), 28 novembre 2019 – “Dicono che rubiamo il lavoro, le case, che è tutta colpa nostra”. Lo raccontano Mohammad e Maha, una coppia di siriani scappati da Aleppo due anni fa, arrivati in Libano, dove hanno vissuto prima nel campo di Sabra e Shatila, e poi in un appartamento che hanno ristrutturato con le loro mani.

La loro casa è stata per due anni una stanza buia e fredda, dove non prendeva il telefono, e il marito non riusciva a mettersi in contatto con i potenziali clienti che gli chiedevano riparazioni idrauliche. A lui, che in Siria faceva l’insegnante elementare. Una descrizione che ricorda il seminterrato del film Parasite, la totale dipendenza economica da lavoretti saltuari.

Gli chiediamo perchè vogliono venire in Europa. Ma in realtà, ci dicono, pensavamo che il Libano fosse la nostra Europa, il posto migliore in cui poter vivere in pace dopo essere scappati dall’assedio in Siria.

“Stavamo bene a casa nostra”, esordisce così O.M., classe 1994, che a Beirut viveva in tugurio, una specie di sottoscala costruito su un terrazzo di un palazzo, pagando 100 dollari al mese. “Non siamo felici di pagare una cifra così alta per dormire in un posto del genere”, precisa.

Racconta dei rimpatri forzati e della clandestinità in cui è stato costretto a vivere per anni, prima di far parte dei corridoi umanitari coi quali è arrivato in Italia, proprio ieri. E’ fuggito dal suo paese perchè non voleva combattere, non voleva prendere parte al conflitto in Siria, dove la leva militare è obbligatoria. Parte per ricongiungersi alla compagna, che è già in Italia, sempre grazie ai corridoi umanitari.

Gli amici e i conoscenti lo chiamano “il turista”, perchè pur di lavorare ha passato anni con lo zaino pronto, a spostarsi in tutto il Libano, là dove lo chiamavano per fare il marmista, l’elettricista, l’autista. A volte non lo pagavano, succede.

Un’altra famiglia di Aleppo, cristiana e non musulmana, spiega che a parità di lavoro, il libanese guadagna sempre di più, e che certe mansioni non vengono più svolte dalla popolazione locale. Il marito fa il saldatore e ci dice che spesso i colleghi libanesi gli fanno fare i lavori peggiori e se ne vanno.

Le discriminazioni quotidiane che subiscono donne, uomini e bambini siriani, rifugiati e migranti, le confermano anche le operatrici, psicologhe di nazionalità libanese, del centro per la gestione dello stress e dei traumi chiamato Metanoia, con sede a Beirut, uno dei progetti di supporto promossi dalla FCEI per i beneficiari dei corridoi umanitari. Pressioni che aumentano la fragilità di queste persone, già provate e private dalla guerra. Per questo, le psicologhe lavorano insieme ai pazienti con l’obiettivo di fargli scoprire le risorse, le “skills”, le potenzialità che hanno e che possono mettere in campo di fronte al nuovo viaggio che li aspetta.

I bambini siriani partecipano alle sessioni di Metanoia disegnando, imparando i numeri e i colori. Vanno a scuola in orari diversi dai bambini libanesi, frequentano le lezioni al pomeriggio, gli altri la mattina. Forme di segregazione e razzismo continue, quotidiane, abusi più o meno grandi che ricordano altri paesi, contesti, momenti storici.

La guerra tra poveri non ha confini.

 

MH
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