Lampedusa è lo specchio dell’Italia
Il giorno dell’arrivo della Sea-Watch 3 sul molo di Lampedusa ha gridato a squarciagola davanti alle telecamere: “Assassini, trafficanti di carne umana, se li fate scendere ci scappa il morto”. Ma a ventiquattr’ore di distanza, nella terrazza del suo ristorante che si affaccia sulla statua della madonnina e sul porto dell’isola, Angela Maraventano, ex senatrice della Lega, prende le distanze da quello che è successo nella notte durante l’attracco della nave Sea-Watch 3. Si accende una sigaretta, con la mano allontana il fumo che ha appena espirato, si sistema la maglietta per trovare un po’ di sollievo dal caldo afoso che arriva dal mare: “Sono andata a fare un controllo cardiologico stamattina, per capire se posso ancora fare questo tipo di proteste”. Dice di aver ricevuto decine di richieste di amicizia su Facebook nelle ultime ore, ma di non essere in contatto con il leader del suo partito, Matteo Salvini. “Ci scappa il morto è un modo di dire che abbiamo qui”, minimizza.
Maraventano rivendica la protesta contro l’attracco della nave umanitaria a Lampedusa, dice di esserne “la promotrice”, di averla preparata da giorni prima al molo Favarolo, poi al porto commerciale: “Sono fiera di aver fatto quello che ho fatto. Volevo difendere l’Italia”.
È una militante storica della Lega nord di Umberto Bossi, avrebbe voluto che Lampedusa diventasse una “provincia di Bergamo”. Poi si è convertita al sovranismo di Matteo Salvini, gli ha fatto anche da guida quando nel 2017 il leader della Lega è venuto in visita. Confessa di non avere nemmeno cambiato la bandiera nel passaggio dalla Lega nord al partito di Salvini.
Definisce la comandante della Sea-Watch 3 “una squilibrata”: “È entrata a casa nostra con forza, ha violentato la nostra isola”. Ripete diverse volte la parola “violentare”. La stessa usata la notte del 29 giugno da un gruppo di uomini per minacciare e insultare Carola Rackete, la comandante della nave umanitaria, arrestata per aver forzato il blocco che le era stato imposto dalle autorità italiane. Maraventano si dissocia dagli insulti sessisti, dice che si trattava di “picciotti”, ragazzi. Poi conferma che si candiderà alle prossime elezioni comunali, è convinta che la Lega otterrà ottimi risultati. Alle elezioni amministrative nel 2017 era la candidata della lista Noi con Salvini ed è arrivata quarta su quattro con il 6 per cento dei voti, ma alle elezioni europee di fine maggio il suo partito ha ottenuto il 45 per cento dei voti, anche se l’astensione è stata alta: è andato a votare solo il 27 per cento dei lampedusani: “Seicentoventicinque preferenze su quasi seimila abitanti non sono molte e sono comunque un ottimo risultato”. Maraventano si sente forte dei tanti che sul molo esultavano per l’arresto della comandante, ma soprattutto di un consenso silenzioso e diffuso, che si coglie nei bar e nelle piazze dell’isola.
Zona grigia
L’imperativo è abbassare i toni, prendere le distanze da qualsiasi immagine negativa possa emergere dai giornali e dalle tv. Si teme che il turismo, principale fonte di guadagno del territorio, ne risenta. Carola Rackete, 31 anni, è stata arrestata, dopo l’attracco, con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale e di “resistenza o violenza a una nave militare” per non essersi fermata all’alt imposto dalla guardia di finanza. In un’inchiesta parallela è accusata anche di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver soccorso al largo delle coste libiche 52 persone. La donna ha spiegato che era suo dovere portare le persone in salvo nel porto sicuro più vicino in base alle convenzioni internazionali.
Il 3 luglio la gip del tribunale di Agrigento Alessandra Vella ha dato ragione a Rackete: non ha confermato l’arresto e non ha disposto nessuna misura cautelare. Per la giudice non c’è stato il reato di resistenza a pubblico ufficiale e violenza a una nave da guerra perché la comandante ha agito “nell’adempimento di un dovere”. Inoltre Lampedusa era il porto più vicino di sbarco e il divieto di entrare in acque italiane, imposto dal decreto sicurezza bis, non si può applicare alle navi umanitarie. Così a pochi giorni dall’attracco e dall’arresto di Rackete, l’inchiesta contro la comandante della Sea-Watch 3 va verso l’archiviazione. Ma rimane la ferita di uno scontro senza precedenti tra un governo europeo e un’organizzazione umanitaria, un conflitto che ha alimentato le divisioni anche nella piccola isola siciliana, diventata negli anni il simbolo dell’accoglienza nel Mediterraneo.
Al Bar dell’amicizia, uno dei più frequentati, un uomo seduto al tavolino fa colazione e guarda sul telefono il video girato durante l’attracco: sghignazza, poi lo mostra al figlio. Nel video alcuni uomini augurano alla comandante di essere stuprata. “Ciao crucca, spero che ti violentino, questi negri”. E poi ancora: “Zingara, venduta, cornuta, vogliamo le manette”. Poche ore dopo aver pronunciato queste parole, Mario Lombardino, un pizzaiolo di 23 anni, incontra i giornalisti vicino alla spiaggia dove sta prendendo il sole e si scusa “con le donne”.
Dice che era ubriaco, che era arrabbiato soprattutto con i parlamentari del Partito democratico a bordo, perché non si occupano abbastanza degli italiani. Lombardino non era da solo: con lui c’erano almeno una ventina di persone, alcune molto giovani. “Non ce l’avevo tanto con gli extracomunitari, ma con la capitana”, dice Alex, un ragazzo con i capelli biondo platino che fa il cameriere in un ristorante del porto e sogna di fare il calciatore come Del Piero. “Non poteva entrare senza l’autorizzazione della finanza”. Poco più in là un signore sulla settantina s’informa: “L’hanno arrestata? Mani e piedi le dovevano legare prima di portarsela via. E voi giornalisti dovreste smetterla di venire a Lampedusa per parlare dei clandestini”. Dice di aver fatto per tutta la vita il marinaio sulle navi cargo e di aver girato l’Africa: “Non possiamo prenderli tutti noi, ci deve pensare l’Europa”. Definisce gli immigrati “scimmie, scimpanzé”.
A Lampedusa si avverte la stessa ostilità verso gli immigrati e verso chi li soccorre che aleggia nel resto d’Italia. Un sentimento che non si fonda su dati reali: come ribadisce spesso il sindaco Salvatore Martello, gli sbarchi sull’isola sono costanti; le barche di legno partite dalla Libia e dalla Tunisia raggiungono la costa senza l’aiuto di nessuna ong. In Italia nel 2019 sono arrivate 2.784 persone, a Lampedusa 1.103 secondo l’organizzazione Mediterranean Hope, un numero irrisorio rispetto alle cifre del passato. Tuttavia l’allarme non è mai stato così alto e le formule usate dai lampedusani per lamentarsi del fenomeno ricalcano quelle ascoltate molte volte in tv: “L’Europa ci ha abbandonati. Perché non li portano a Malta? Che interessi hanno queste navi straniere? Chi le paga?”.
Mostri ed eroi
Come racconta l’antropologo Marco Aime nel sul libro L’isola del non arrivo(Bollati Boringhieri 2018) i lampedusani hanno sempre denunciato la loro condizione d’isolamento e di abbandono da parte del governo, dovuta alla posizione remota dell’isola, più vicina alle coste nordafricane che a quelle italiane. Questo disinteresse è ciclicamente interrotto dall’improvviso emergere sulla scena di una nuova crisi, reale o strumentale, legata all’immigrazione e al controllo della frontiera. E ogni volta viene fatto un racconto dell’isola stereotipato in cui gli abitanti non si ritrovano. “Ognuno vive l’isola in maniera diversa, ma i mezzi d’informazione ne raccontano un solo volto, quello più spettacolare, più scenografico. Sì, perché Lampedusa è diventata l’isola degli sbarchi, e già il termine induce una certa ansia. ‘Sbarco’ evoca subito Normandia, Anzio, i garibaldini. A ‘sbarcare’ sono solitamente i nemici, gli eserciti. Invece qui la gente arriva, approda, naufraga, non sbarca”, scrive Aime nel suo libro.
Negli ultimi anni l’isola è stata al centro di una serie di eventi che hanno segnato la storia italiana: dall’arrivo nel 2011 di diecimila persone in fuga dalla Tunisia dopo la rivoluzione dei gelsomini, alla prima visita pastorale di papa Francesco nel luglio del 2013 fino al tragico naufragio del 3 ottobre 2013, avvenuto a poche miglia da una delle spiagge più belle di Lampedusa, l’isola dei conigli. Dopo quel naufragio, in cui persero la vita 368 persone, e sulla spinta emotiva che si generò, il governo italiano lanciò la prima missione umanitaria di ricerca e soccorso lungo la rotta del Mediterraneo centrale: Mare nostrum. In seguito a un altro naufragio, il più tragico mai avvenuto tra Lampedusa e la Libia, nell’aprile del 2015, molte ong decisero di unirsi ai mezzi navali italiani ed europei per soccorrere i naufraghi lungo la rotta migratoria più pericolosa del mondo, dopo la chiusura di Mare nostrum.
A distanza di quattro anni, dopo che l’Italia ha firmato un accordo con Tripoli nel 2017 e al termine di una lunga campagna di criminalizzazione degli operatori umanitari, l’arresto di Rackete e il sequestro della Sea-Watch 3 sono l’emblema di un’epoca: quella della chiusura dei porti voluta dal ministro dell’interno Matteo Salvini. I lampedusani non si riconoscono nell’immagine che di loro dipingono i mezzi d’informazione: vorrebbero che si parlasse della difficoltà di raggiungere la Sicilia e il resto d’Italia, della mancanza di servizi, dei problemi ambientali, dei giovani che lasciano l’isola per non tornare, del basso livello dell’istruzione e delle scarse occasioni culturali. E invece si sentono invisibili, come gli immigrati, che sbarcano quasi sempre di notte, sono trasferiti nel centro di identificazione di Contrada Imbriacola, nell’entroterra, e qualche giorno dopo sono portati sulla terraferma.
Per Paola La Rosa, attivista del forum Lampedusa solidale, il problema principale è “una visione lampedusocentrica dell’immigrazione”, che per anni ha messo l’isola al centro di un racconto lontano dalla realtà. “Lampedusa è l’Italia, riproduce tutti i problemi del macrocosmo”, dice La Rosa. Uno dei problemi più grandi è il cortocircuito tra la rappresentazione giornalistica dell’immigrazione e la percezione del fenomeno: nell’ultima crisi i numeri e la minaccia dell’invasione sono stati ingigantiti e inoltre si fa confusione tra il soccorso in mare e le politiche migratorie. Il salvataggio in mare è un obbligo e il soccorso delle persone in fuga dalla Libia dipende dal diritto umanitario, ma le politiche dell’immigrazione non si esauriscono con il soccorso. Il discorso sembra intrappolato però in una contrapposizione tra criminali ed eroi. E in mezzo c’è la diffusione preoccupante dell’aggressività e dell’odio.
Secondo il rapporto Barometro dell’odio di Amnesty international, l’incitamento all’odio è sempre più diffuso: migranti, minoranze e donne sono l’obiettivo privilegiato. “A Lampedusa, come nel resto del paese, bisognerebbe individuare una linea netta al di sotto della quale non si può scendere e quella linea sono le nostre leggi fondamentali”, afferma La Rosa. Invece si preferisce creare feticci: “L’esaltazione delle persone che fanno il loro dovere, la creazione di eroi ci parla di un paese che legittima lo stato a non fare la sua parte”.