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di Simone Scotta
(NEV) La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) per Mediterranean Hope (MH) – Programma rifugiati e migranti. Questa settimana lo sguardo proviene da Beirut
Le note di Nada risuonano in macchina sulla strada, abbastanza malmessa, che ci porta verso la Valle della Bekaa: tempo grigio, la musica suona, poi il meteo, l’ora esatta, noi in viaggio.
Il tempo peggiora man mano che saliamo verso la montagna, poi la strada ci porterà a scendere, quasi a zig-zag, verso la Valle. C’è nebbia, che piano si dirada. Dopo una prima visita a un’organizzazione partner, la Syrian American Society (SAMS) che ci aiuta nella fornitura di farmaci per il progetto medico, andiamo pochi chilometri a ovest, a ElMarj, a visitare una famiglia che ci auguriamo di poter aiutare verso il corridoio umanitario diretto in Francia.
Ci racconta la sua storia, scende nei minimi particolari: è la terza volta che lo incontriamo e, di fatto, la rivive ogni volta; non è semplice. Io, come ascoltatore e dattilografo della sua storia attraverso le parole del mediatore Hani, provo ad avvicinarmi alla sua vita, grazie alla conoscenza del contesto siriano e all’esperienza di quasi tre anni di colloqui con persone siriane, ma nuovamente, come tante altre volte, non posso che stupirmi mentre il racconto va avanti.
Per quanto possa averne sentite nel corso di questi anni, per quanto possa provare a mettermi nella scarpe e nei panni di chi ha vissuto momenti quasi indicibili, è impossibile, per me, anche solo immaginare di vivere dieci anni in carcere a Tadmor, definita dalla BBC nel 2015 una delle peggiori prigioni del mondo. Dieci anni. Dieci anni della propria vita.
È impossibile pensare di essere picchiato quasi a morte, con benzina buttata sul corpo, la minaccia di essere bruciato vivo e, se ancora non fosse abbastanza, avere davanti a te tuo padre: convocato nel carcere dove sei detenuto senza aver mai visto un avvocato e senza un’accusa formale; l’unica certezza è la razione di botte, di fronte a tuo padre, che ha anche una certa età. Tutto questo per spingere te, suo figlio, a confessare di essere contro il regime.
È impossibile provare a immaginare tua moglie arrestata per pochi giorni, ad anni di distanza, nel 2012 durante le proteste in Siria, con ancora i segni delle sigarette spente sul palmo della mano, solo per la colpa di provenire dalla zona sbagliata e di aver chiesto aiuto all’ospedale, dopo che l’edificio in cui avevi il tuo negozio di vestiti era stato colpito da un barile bomba e andato in fiamme.
È impossibile comprendere, dopo tutti questi eventi: e ancor meno è possibile festeggiare il compleanno del nipotino di 9 anni, M., che lo stesso giorno muore per una pallottola vagante sparata da una milizia, in Libano. La commemorazione di un defunto porta a un’altra morte, quella di un bambino che ha avuto l’unica colpa di essere accompagnato dalla madre a fare una passeggiata, forse nell’unico parco verde di Beirut, nel momento sbagliato. Non riesco a immaginarmi nemmeno lontanamente cosa possa aver provato la madre di questo bambino, quel giorno. Credo sia impossibile.
La giornata va avanti: ancora due valutazioni da parte del medico responsabile del progetto, la preparazione per un’intervista tra qualche giorno in Ambasciata francese.
Con la testa sono lontano, nei meandri del precedente colloquio, un pugno nello stomaco nella mia ora e un quarto di conversazione. Innumerevoli invece i pugni nello stomaco ricevuti da N. nel corso della sua vita – pugni che, forse, non sono ancora finiti.