La parola bandita dal vocabolario sull’immigrazione

Roma (NEV), 4 luglio 2018 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) per Mediterranean Hope (MH) – Programma rifugiati e migranti. Questa settimana lo sguardo proviene da Reggio Calabria e porta la firma del coordinatore di MH, Prof Paolo Naso

In questo ossessivo dibattito sull’immigrazione divenuto – come ha ben affermato il cardinale Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana – un potente strumento di “distrazione di massa”, c’è una parola che si è persa per strada. Sino a due mesi fa ritenuta la chiave di ogni discorso e di ogni politica sulle migrazioni, oggi è spartita dal lessico governativo ed abbiamo buone ragioni per pensare che, dopo la parola, spariranno anche le misure con cui ad essa si era dato un senso concreto. La parola è “integrazione”, architrave di ogni politica europea sulle migrazioni, nella convinzione che non si possa immaginare una seria politica migratoria – sia pure a “porti chiusi”, come compulsivamente ci viene ripetuto ogni giorno – senza prevedere azione mirate all’inclusione sociale degli immigrati. Nei principi comuni di base dell’Unione europea sull’integrazione (2004) si chiariva bene che essa implica un reciproco impegno, sia da parte della comunità immigrata che di quella nazionale. Non è, insomma, un’assimilazione unilaterale come invece predicano nazionalisti e populisti il cui vero obiettivo però, più che assimilare, resta quello di espellere. No, spiegano documenti europei che nei fatti ormai appaiono carta straccia: l’integrazione è il processo basilare per costruire società ordinate e coese in cui tutti i cittadini – vecchi e nuovi – condividono non solo le norme ma anche i principi e la cultura civica necessaria a qualificare e ordinare una convivenza “tra diversi”.

In questo “sguardo dalla frontiera”, vogliamo capovolgere il punto di osservazione e parlare, più di ciò che vediamo osservando il mare, di quello che invece accade sulla terraferma. E parleremo proprio della parola bandita.

Lo facciamo a partire da Reggio Calabria, una delle città italiane su cui pesano più pregiudizi per la sua economia debole, l’altissima disoccupazione giovanile, l’infiltrazione delle mafie, il degrado delle periferie. Da oltre due anni a Reggio vive una piccola comunità di circa venti profughi siriani, giunti con i “corridoi umanitari” promossi dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) e dalla Comunità di Sant’Egidio, ospitati e accompagnati da un’associazione locale, l’International House. Con queste persone e con lo staff dell’Associazione – splendidi e qualificati giovani che forse, in assenza di questo lavoro, sarebbero partiti da tempo alla ricerca di un posto di lavoro nel Nord o all’estero – ho passato una bella serata in cui ciascuno ha raccontato la propria storia. Tutte simili ma al tempo stesso diverse: la guerra che irrompe nella vita delle persone e spezza sogni, programmi, attività. Poi la fuga in Libano e la sofferenza nei campi o negli appartamenti fatiscenti; gli uni e gli altri privi di ambulatori medici, scuole, servizi. Senza potere lavorare e con l’incubo di essere arrestati e multati per “immigrazione irregolare”. Ma se questo è il basso continuo dei vari racconti, poi ci sono le storie individuali; la donna che cura la sua malattia psichiatrica e ringrazia commossa i medici italiani; i fratelli falegnami che trovano i primi lavori in un parco eco-tecnologico di primario interesse, Ecolandia; le ragazze adolescenti orgogliose delle loro pagelle con voti alti; il panettiere che sogna di fare “catering siriano” o il cuoco che lavora in uno “stabilimento” sul mare. Semplici storie di vita, ognuna diversa dall’altra, che raccontano una “frattura” dolorosa ma anche una “rinascita”, la caduta e la capacità di rialzarsi.

Bello, ma possibile solo a una condizione: che la rotta dell’integrazione sia ben tracciata e venga assunta sia dal decisore politico, che dalle associazioni che accolgono i profughi, che dagli stessi richiedenti asilo. Rinunciare a questa parola significa perdere la bussola, smarrirsi dietro politiche e polemiche di corto respiro. È la frontiera confusa e violenta di questi giorni che ci dice che dobbiamo investire di più sull’integrazione – corsi di lingua, alfabetizzazione civica, dialogo interculturale e interreligioso – perché sappiamo che l’Italia è e resterà un paese di immigrazione. Chi bandisce la parola “integrazione” scommette sui respingimenti e sulla fuga di una buona parte dei cinque milioni di immigrati stabilmente residenti in Italia. E così facendo crede di fare l’Italia più sicura e più omogenea. La fa semplicemente più debole e più impaurita.

MH
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