Roma (NEV), 9 maggio 2018 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e collaboratori di Mediterranean Hope (MH) – Programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana lo sguardo proviene dalle zone di ricerca e soccorso nel Mar Mediterraneo
Quando si è in mare tutto cambia e il tempo si sospende. Partecipare a missioni di ricerca e soccorso cambia l’ordine delle cose. Ci sono vari modi di raccontare la nostra esperienza con la ONG Proactiva Open Arms. Potremmo cambiare nome e nazionalità a chi scappa, la direzione dei flussi delle migrazioni. Potremmo tornare indietro nella storia del nostro continente e dire che Segen era uno zingaro o un ebreo e Oswan un antifascista. In queste storie si ritrova la stessa ferocia. È impressionante sentire i racconti di queste persone, quando sono salve sul ponte di questa nave, tra coperte termiche e donne che cantano. Tra bambini che piangono e uomini che ti guardano con uno sguardo che non dimenticherai mai. Qui, su questo ponte, un abbraccio, un saluto, una parola scambiata ne vale milioni, perché sono i gesti dell’umanità che ritrova se stessa. Alcuni di questi ragazzi si guardano intorno mentre raccontano del carcere libico; sono salvi, ma hanno ancora il terrore negli occhi. Dicono che avrebbero preferito morire in mare piuttosto che ritornare in Libia.
Nella nostra prima missione insieme alla Proactiva, a colpire la nostra coscienza dopo aver salvato centinaia di persone, è stato vedere incatenato per un mese il rimorchiatore Open Arms nel porto di Pozzallo, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. In questa missione a colpirci è stato il rimpallo di responsabilità fra le autorità inglesi e italiane, mentre 105 persone più l’equipaggio sono state costrette a restare in mare aperto in condizioni estreme per due giorni sulla Astral, il veliero di Proactiva impegnato nella operazioni di ricerca e soccorso.
“Sono colpito e amareggiato per quello che ho visto in queste ore sull’Astral – racconta Daniele Naso, che ha partecipato a due missioni, nel ruolo di cuoco di bordo –. È una situazione emergenziale che si sarebbe potuta evitare senza troppi problemi. Invece ogni governo ha recitato la sua parte nel teatro dell’assurdo, lasciando nell’attesa per un giorno e una notte i salvati. Chi parte dalla Libia e affronta il mare a rischio della vita non parte da casa sua per le vacanze, parte molto spesso da luoghi di detenzione dove il suo fisico è stato messo alla prova. Bambini e malati sono ancora più a rischio, perché non smettono mai di vomitare. Così, l’altro ieri, mentre i governi si rimpallavano le loro responsabilità, un bambino ha avuto un’emorragia interna e ha iniziato a vomitare sangue. Trovarsi in una nave in mezzo al Mar Mediterraneo, con persone che hanno bisogno di cure, con un bambino che vomita sangue e i governi che fanno perdere tempo prezioso, non solo fa arrabbiare, ma rende evidente quanto valga la vita di queste persone per i governi europei”.
In queste due missioni con la Proactiva Open Arms abbiamo soccorso più di 300 persone, uomini donne e bambini che portano con sé storie importanti che andrebbero ascoltate. Storie di guerra e colonialismo, di violenza e speranza in una vita migliore. Se le ascoltiamo bene, troveremo in molti di quei racconti le stesse parole dei nostri nonni, le stesse frasi che leggiamo nei libri di storia. Sulla Open Arms e sulle altre navi che salvano vite c’è anche Anna Frank, ha la pelle scura e chiede protezione internazionale. La stessa che non hanno potuto avere gli ebrei quando fuggivano dai nazisti. La stessa protezione internazionale che è possibile garantire grazie ai corridoi umanitari. C’è chi continua a sfidare il mare spinato per fare in modo che queste persone possano arrivare vive e raccontare la loro storia. Per quanto ci riguarda, siamo fieri di essere parte di questi racconti.