di Silvia Turati, operatrice dei Corridoi Umanitari, attualmente a Lampedusa
Roma (NEV), 7 febbraio 2018 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH) – Programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI).
Durante l’inverno di qualche anno fa, trascorsi innumerevoli pomeriggi nelle tende di un campo profughi siriano, in un villaggio nella regione dell’Akkar, nel Nord del Libano. Quella zona, povera e degradata, ha visto sorgere numerosi insediamenti informali che, oggi come allora, accolgono migliaia di persone fuggite dal conflitto in Siria.
Trascorrevo con Dalal, una giovane siriana madre di due bambini piccoli, interi pomeriggi davanti alla stufa a gasolio della sua tenda. Sopra, una grossa e usurata teiera, compagna di lunghe ore trascorse senza elettricità a raccontarci storie, a guardare vecchie foto, a cucinare insieme e scambiarci confidenze. Spesso si univano a noi per scambiare due chiacchiere, in un continuo viavai, altre donne del campo, uomini, anziani e bambini. Mi sentivo accolta. Sedevamo per terra sulle stuoie, in cerchio e appoggiati ai cuscini sorseggiavamo del tè.
Un anno e mezzo dopo, mi sono trovata a girare ancora per quelle strade trafficate, tra campi profughi e alloggi di fortuna che ospitavano migliaia di sfollati. Era da poco avviato il progetto dei Corridoi Umanitari promossi dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia(FCEI), e insieme all’équipe ci muovevamo in tutto il paese per incontrare le famiglie che sarebbero partite per l’Italia. I colloqui nelle abitazioni acquisivano confidenzialità e maggiore apertura. Entrare nelle case di quelle persone significava toccare la loro sfera più intima, inserirci in uno spazio privato che, spoglio di oggetti e spesso fatiscente, raccontava i pezzi riassemblati di una nuova quotidianità. I pochi oggetti sparsi in giro riflettevano la speranza propria di chi, giorno dopo giorno, raccoglie le macerie della propria vita e si accinge a ricominciare. Ogni nostra conversazione aveva sempre inizio davanti a un tè: quel bicchiere caldo che ci veniva offerto diventava la chiave d’accesso per entrare nei loro passati, nell’ordinarietà delle loro esistenze prima della guerra, pronte a essere ricostruite altrove.
Tempo dopo, mi sono trovata io stessa a preparare tè in grandi quantità, a Lampedusa. Prima di ogni sbarco di migranti, infatti, ci si adopera in questo rituale apparentemente semplice, ma pieno di significato. Ad ogni sbarco il tè che offriamo, bollente e dolce, scalda immediatamente i corpi infreddoliti e dona energia, segno concreto di umanità dopo il lungo viaggio attraverso deserti, dopo le torture subite, le angherie di trafficanti senza scrupoli, dopo il freddo delle notti in mare e la paura di non arrivare.
A Lampedusa, nel museo delle migrazioni “PortoM” gestito dal collettivo Askavusa, sono conservati diversi oggetti che parlano delle migrazioni. Sono oggetti restituiti dal mare, pezzi ordinari di quotidianità appartenuti a uomini e donne in viaggio attraverso il Mediterraneo. Ci sono vestiti, scarpe, pettini, spazzolini da denti, pentole e teiere di varie dimensioni. Una di queste, grande e un po’ rovinata, mi ricorda quella di Dalal, la stessa che aveva scaldato i nostri pomeriggi d’inverno qualche anno fa. Quell’oggetto, ripescato nel mare, è ora la materializzazione della frontiera spinata, della porta chiusa, dell’esclusione e del rifiuto.
Gli oggetti raccolti a Lampedusa narrano la voglia di normalità persa per sempre nella traversata. Quella stessa voglia di normalità si sente nelle parole dei profughi siriani arrivati in Italia con i Corridoi Umanitari, su un volo Alitalia e con un visto. Nelle valigie imbarcate all’aeroporto di Beirut e a “PortoM” troviamo gli stessi oggetti della normalità, con due diversi destini. Tra questi, le teiere per il tè, “bevanda sociale” per eccellenza nel mondo arabo, simbolo di aggregazione, scambio, apertura e condivisione.