I ministeri di Interno ed Esteri siglano l’intesa con Comunità di Sant’Egidio, Fcei e Tavola Valdese per aggiungere mille persone in due anni alle altrettante già arrivate, soprattutto siriani dal Libano. Numeri bassi di fronte al dramma di una persona morta in mare ogni 42 che viaggiano ma «via da seguire senza tregua perché evita le stragi e a fronte di un progetto preciso supera diffidenza e garantisce integrazione», spiega il portavoce di Sant’Egidio. Nel frattempo prende sempre più voce l’appello della società civile per la revisione dell’accordo Italia-Libia
Altre mille persone arriveranno in Italia nei prossimi due anni con i Corridoi Umanitari. La notizia è positiva e fa da contraltare a giorni più che drammatici per le ultime tragedie avvenute nel Mar Mediterraneo, con decine di vittime – siamo di fronte ai dati peggiori di sempre nel rapporto tra arrivi e persone che hanno perso la vita in mare – e tensione internazionale per il discusso comportamento delle unità della Guardia costiera libica coinvolte nei salvataggi. “Verranno selezionate persone e famiglie siriane soprattutto dai campi profughi del Libano, ma anche dal Marocco. Sempre con la stessa modalità dei mille arrivati in questi due anni: visite in loco, conoscenze dirette su segnalazione delle associazioni che sono presenti come l’Operazione Colomba della Comunità Papa Giovanni XXIII”, spiega Roberto Zuccolini, portavoce della Comunità di Sant’Egidio, all’indomani della firma per i nuovi arrivi avvenuta al ministero dell’Interno alla presenza anche del ministro Marco Minniti e dei rappresentanti dell’altro ministero coinvolto, gli Affari esteri. Il rinnovo dei corridoi – promossi anche con Fcei (Federazione chiese evangeliche in Italia) e Tavola Valdese – si va ad aggiungere all’azione che si sta portando avanti in Etiopia, sempre da Comunità di Sant’Egidio insieme alla Cei, Conferenza episcopale italiana. “Stiamo parlando di un’iniziativa che funziona. I corridoi dimostrano che le persone che arrivano in questo modo non sono pericolose come molti pensano. Se c’è un progetto preciso, loro evitano il rischio di morire in mare, noi sappiamo fin da subito chi abbiamo di fronte perché le autorità verificano i documenti fin dal luogo di partenza”, continua Zuccolini. Una volta in Italia, “chiedono subito asilo politico e in pochi mesi lo ottengono, con una media molto più bassa dei due anni di attesa per le altre persone che arrivano con i barconi”.
Fin da subito le persone che entrano in Italia via aerea con i Corridoi umanitari iniziano corsi di italiano. “L’integrazione avviene in modo naturale, e una volta che capiscono il progetto, i vicini di casa e i residenti del luogo dove sono inseriti i profughi iniziano a collaborare, anche offrendo case. Questo è da sottolineare: non è vero che c’è solo diffidenza ma anche molta solidarietà verso chi arriva da lontano. E questo avviene praticamente in ogni Regione d’Italia, dato che i mille già arrivati sono diffusi un po’ ovunque, e anche a San Marino”. A proposito dell’estero, l’esperienza italiana ha finalmente fatto scuola anche in Francia, dove “sono arrivate le prime 16 persone di un progetto da 500 arrivi, sempre dal Libano”, e si sta sta studiando in Spagna, Belgio e altri Stati, “ma è importante che se ne interessi tutta l’Unione Europea, dato che è un modello che funziona. L’assenza di un’azione comunitaria è il problema principale”, spiega il portavoce di Sant’Egidio. Servirebbero più corridoi ma anche “altre vie di ingresso legale, come i flussi per motivi di lavoro – a fronte di un’offerta che c’è – e azioni di sponsorhip come il modello canadese”, in cui associazioni o privati si prendono carico della persona accolta. “È riscontrato che i ponti funzionano meglio dei muri, che sono inutili e mandano un messaggio distorto della realtà”. In che senso? “Non siamo più sicuri chiudendo le nostre porte. Al contrario: aprendosi capisci chi hai davanti, i suoi problemi, li gestisci e aumenti anche la tua sicurezza. In questo modo avrai meno zone d’ombra da cui possono nascere estremismi e radicalizzazioni”, specifica Zuccolini.
La chiusura delle frontiere sta portando alle stelle i numeri della sofferenza. Se negli hotspot della Grecia il sovraffollamento, le lunghe attese e le condizioni di vita sono proibitive e l’accordo Ue-Turchia sta creando situazioni drammatiche dal punto di vista dei diritti umani, nel mar Mediterraneo le morti non sono mai state così frequenti. La nuova conta dell’Oim, Organizzazione internazionale delle migrazioni che da un paio d’anni è sotto l’egida delle Nazioni unite, toglie il fiato. 2715 persone che han perso la vita su 113.957 arrivi, e se aggiungiamo le quattro salme portate a Pozzallo il 7 dicembre dalla nave Aquarius dell’ong Sos Mediterranée e il corpo del bimbo recuperato assieme a 58 superstiti dalla nave dell’ong Sea-Watch, il numero arriva a 2720 vittime su 114.020: una media umanamente insostenibile di una persona annegata ogni 42 che si mettono in viaggio. Nel 2016 il rapporto era una ogni 91.
Nel frattempo le navi delle poche ong rimaste attive da quest’estate (più per le minacce della Guardia costiera libica che per il Codice di condotta governativo italiano) sono ora ritornate in mare aperto, dove ci sono quelle militari dell’Agenzia Ue di controllo delle frontiere esterne, Frontex, e dell’Operazione Sophia- Eunavform Med. In particolare, desta ancora preoccupazione a tre giorni dall’accaduto l’atteggiamento violento di un’unità libica nei confronti dei migranti che volevano raggiungere la nave di Sea-Watch, come testimoniato nel racconto a tinte forti del volontario italiano a bordo Gennaro Giudetti (che dopo la sconvolgente intervista-appello per Vita.it in cui chiede di incontrare il ministro Marco Minniti ha già ricevuto un primo riscontro, ovvero un invito alla Camera per quando avrà finito la missione in mare, auspicando anche una successiva presenza al Parlamento europeo). Accaduto che Sea-Watch ha documentato con foto, video e audio, mentre la Guardia costiera libica, rimandando al mittente le accuse e additanto l’ong come “lupi travestiti da agnelli”, ha annunciato imminenti prove mediatiche a suo favore che però non sono ancora arrivate. In tutto questo, una vasta parte della società civile sta mettendo in discussione l’accordo Italia-Libia, proprio per il comportamento dei libici (deputati a riportare in Libia i barconi intercettati, cosa che ovviamente non fanno né unità navali italiane o europee né le ong, anche se per ora il governo italiano si chiude a qualsiasi revisione. “Noi non crediamo né a Sea Watch né alla Guardia costiera libica, ma non dobbiamo neanche stabilire a priori chi sono i buoni e chi sono i cattivi, perché c’è molto da discutere su chi oggi siano i buoni e chi siano i cattivi”, ha risposto seccato il Prefetto e Capo di gabinetto del ministero dell’Interno Mario Morcone a Eleonora Camilli, giornalista di Redattore sociale, che le chiedeva un parere sui fatti del 6 novembre 2017.
Tra le altre reazioni, si segnala quella del senatore Pd Luigi Manconi: “le politiche di chiusura e di respingimento si sono rivelate tragicamente inefficaci. Si deve voltare pagina. E intanto e da subito occorre riprendere l’iniziativa Mare nostrum – irresponsabilmente abbandonata – e si deve promuovere la più ampia presenza di imbarcazioni delle ong nel Mediterraneo. Tutto il resto – missione italiana in Libia, accordi con i governi di quel paese, controllo dei confini – viene dopo”. Anche il giurista esperto di flussi migratori Fulvio Vassallo, intanto, scrive a Minniti una lettera aperta che sta guadagnando adesioni. Ecco il testo: “Caro ministro Minniti non abbiamo più parole per esprimere il dolore e l’insofferenza civile per la fine tragica di tanti migranti sulla rotta libica. Malgrado siano diminuite le partenze continuano ad aumentare le vittime. Oltre 40 tra morti e dispersi, anche bambini, solo negli ultimi giorni sulla rotta del Mediterraneo centrale. Crediamo che gli accordi conclusi con il governo di Tripoli, con la Guardia Costiera che vi corrisponde, e con alcune milizie che controllano o controllavano i luoghi di partenza, abbiano costi umani intollerabili, anche tenuto conto delle finalità che si volevano perseguire. Vogliamo incontrarla per comunicare e condividere il dolore, le immagini, i racconti, di persone che non sono riuscite ad arrivare vive in Italia o che sono state soccorse e sbarcate vive nel nostro paese, ma con segni indelebili nel corpo e nello spirito, per le torture ed i trattamenti degradanti subiti in Libia. Gli accordi bilaterali, o le intese assunte a livello europeo, non possono violare il diritto internazionale, recepito anche in Italia, che garantisce i diritti fondamentali a tutte le persone, a partire dal diritto alla vita, indipendentemente dalla loro provenienza e condizione giuridica. Speriamo che voglia ascoltare almeno chi porta soltanto una storia da raccontare, una testimonianza, in nome di chi non ha più voce, per chiedere la fine di accordi e protocolli operativi che stanno uccidendo e ferendo migliaia di persone”. Probabilmente sarebbe auspicabile, a questo punto, un incontro costruttivo tra ministero e società civile (di cui fanno parte anche le ong) per capire come superare le estreme difficoltà attuali nel garantire diritti umani e sicurezza in mare e nei luoghi di partenza delle imbarcazioni.