Roma (NEV), 14 giugno 2017 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “lo sguardo” proviene dall’Osservatorio di Lampedusa
Durante il servizio di internet point che il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) Mediterranean Hope offre ai tanti migranti che passano per Lampedusa, spesso tra i volontari del progetto e i ragazzi venuti dal mare si instaura un clima di fiducia tale che qualcuno riesce a trovare il coraggio di raccontarsi. È questo il caso di Mike, un ragazzo camerunense che ha voluto condividere con noi la sua storia:
“Sono partito dal Camerun per la Nigeria, ho attraversato il deserto, passando per Agadez, convinto di andare in Algeria – almeno così ci avevano detto – invece ci hanno portati in Libia per essere venduti. Appena arrivati, siamo stati imprigionati e lì sono rimasto per tre mesi e due settimane.
Ogni giorno subivamo torture di qualsiasi tipo: ci bastonavano, ci facevano spogliare, ci buttavano per terra e ci bagnavano, subito dopo arrivava la scarica elettrica. Il motivo? Erano i soldi, a me per esempio hanno chiesto cinquecentomila franchi [franchi camerunensi, equivalenti a circa 760 euro, ndr], ci picchiavano anche quando ci veniva consentito di chiamare le nostre famiglie. Il motivo? Farci urlare, affinché il nostro dolore arrivasse direttamente alle orecchie dei nostri cari, che erano costretti a pagare per salvarci.
Io sono riuscito a chiamare solo una volta, perché la mia famiglia non aveva soldi.
Le prigioni erano diverse e separate per donne e uomini. Mangiavamo tre cucchiai di riso al giorno e bevevamo tre cucchiai di acqua non potabile e salata. La doccia potevamo farla una volta a settimana da una sorta di rubinetto da cui provavamo a bere, ma l’acqua era sempre salata.
All’esterno c’era una grande barriera dove, in un’altra prigione, erano detenuti i gambiani. Io mi trovavo invece nella prigione controllata dai nigeriani, con altri camerunensi, ed eravamo solo in tre a parlare francese, così ci picchiavano ogni volta che non parlavamo in inglese. Eravamo circa centotrenta persone in uno stanzone, stavamo sempre al buio; io non riuscivo a dormire perché i pensieri mi passavano davanti gli occhi e mi martellavano il cervello.
Un giorno riconobbi l’uomo che ci aveva portati in Libia, appena aperta la porta vidi finalmente la luce, uscii, respirai e mi gettai ai suoi piedi, supplicandolo di aiutarci. Mi chiese come stessi e come mai non avessi ancora pagato, gli spiegai che la mia famiglia non aveva soldi e che in questo luogo sarei morto, se ci fossi rimasto ancora. Ci portò con lui, me e i due compagni camerunensi e ci liberò. Scoprii poi che anche lui era camerunense ed era il contatto tra i libici e la mia famiglia.
L’uomo mi portò a casa sua e non appena ritornato in forze iniziai a lavorare, lavavo le auto, ma in un’altra città per non farmi riconoscere dai trafficanti, avrei avuto lo stesso problema se fossi tornato nel mio paese. Erano passati quattro mesi, quando l’uomo che mi aveva venduto e poi ripreso, mi presentò un libico che una notte, verso le tre o le quattro, mi portò sulla costa e mi fece salire su un gommone. Tutti i soldi che avevo guadagnato me li hanno rubati in diverse aggressioni. Eravamo circa centoquindici persone senza più nulla e così siamo partiti. Il viaggio durò sei ore, fino a quando, arrivati in acque internazionali, una nave italiana ci ha salvati.
Ora riesco a far funzionare la testa, penso a mia figlia, vorrei abbracciarla, vederla crescere e giocare, non posso pensare di vederla al telefono senza avere un contatto diretto con lei. Questo mi fa male, ma ora sono al sicuro e devo pensare a riprendere quello che sono, devo ricominciare a fare sport, a camminare, devo riuscire ad allontanare i pensieri che mi riportano in Libia, dove un giorno durava un mese e le bastonate erano quotidiane come il caffè al mattino in Italia”.