Lampedusa, Agrigento (NEV), 18 novembre 2015 – Guardo la cartina del mondo per cercare di capire quanto è stato lungo il viaggio, il mio viaggio questa volta. E mi accorgo che il minuscolo puntino che rappresenta Lampedusa è quasi alla stessa altezza del confine tra l’Arizona e il Messico. Il progetto Mediterranean Hope è andato a conoscere e farsi conoscere in un’altra frontiera del nostro tempo, un’altra frontiera tra il Nord e il Sud del mondo. Quando dico che arrivo dall’Italia, da Lampedusa, le persone sgranano gli occhi. Non possono credere che sia arrivata da così lontano e che i racconti che porto con me siano così familiari e sconvolgenti allo stesso tempo.
Parlo con Marcus, un giovane uomo dell’Honduras che si è spostato da casa per offrire un futuro alla sua famiglia e ai suoi tre figli. Vorrebbe semplicemente lavorare per loro, perché in Honduras la vita è troppo difficile. Ci troviamo a Nogales, in Messico, appena dopo la frontiera. Siamo in un rifugio per migranti che sono stati deportati dagli Stati Uniti con la Kino Border Initiative Shelter, che non offre solo due pasti caldi al giorno e momenti di condivisione e preghiera, ma anche l’opportunità di incontrare avvocati o parlare delle situazioni di difficoltà e sfruttamento per comprendere quali siano i diritti di tutti. Marcus mi dice che ha provato già cinque volte a saltare il muro, che ogni volta è stato arrestato dalla polizia di frontiera, la Border Patrol, ed è rimasto per lunghi mesi in prigione prima di essere deportato. Parlo in italiano e mi risponde in spagnolo, ci capiamo, i suoi occhi sono limpidi. Spiego a Marcus da dove vengo, su un foglio disegno Lampedusa e racconto di come arrivano i migranti. Racconto delle barche e del mare. Lui mi guarda pensieroso e poi mi dice “non so se è più pericoloso il vostro mare o questo deserto. Ma credo di preferire mille volte camminare nel deserto con le mie gambe piuttosto che attraversare il mare”. Una della attiviste della Kino Initiative ci racconta che quest’anno sono morte almeno 125 persone nella traversata del deserto, quelle di cui si ha traccia.
E’ un deserto enorme e senza punti di riferimento, dove di notte si gela e i coyote non ti risparmiano. I “coyote” sono anche quei trafficanti che a caro prezzo ti fanno passare il confine, a volte obbligando le persone a trasportare droga. Pena ancora più alta e mesi di detenzione in più. Dico ai miei compagni di viaggio, membri della United Church of Christ (UCC), che i morti nel mar Mediterraneo quest’anno sono stati più di 3500. Non ci sono parole. Questo mare è assassino quanto le leggi che imponiamo.
Penso al sistema di detenzione negli USA, penso ai ragazzi che ho visto in una corte dell’Arizona costretti a dichiararsi colpevoli per aver tentato di rientrare nel Paese. Penso al periodo che passeranno in prigioni private, grande business nelle mani delle lobby, prima di essere deportati. Penso a loro, volti giovani e spaventati, con le manette e una catena che lega mani, fianchi e piedi. Mi si blocca il respiro. Costruiamo muri e catene per un’umanità che non vogliamo, per non rinunciare alla nostra troppa ricchezza. I “coyote” sono spietati come i nostri trafficanti di esseri umani. Le donne devono pagare una prezzo maggiore per non essere violentate, se non possono farlo subiscono abusi sia in Messico sia dalla stessa polizia di frontiera in territorio americano. Benvenute nel mondo delle opportunità – penso – strizzando gli occhi per tutto quello che vedo.
Muri, frontiere, storie lontane ma non così diverse. Madri che sono costrette a lasciare i propri figli; uomini che vogliono solo il diritto di lavorare, dignitosamente; polizia, sbarre e catene. Facciamo una lunga camminata nel deserto, accompagnati da una donna coraggiosa che abita proprio qui, in questa distesa di cactus con le montagne all’orizzonte. Il percorso è impervio e incontriamo delle croci bianche. Corpi ritrovati nel 2009, o meglio, ossa. Senza nome e senza storia ma ora con un luogo per essere comunque piante e ricordate. Penso a tutti i nostri fratelli e sorelle sotto il mare, o quelli sepolti vicino ai nostri cari che però non hanno una famiglia che li possa riconoscere. La nostra guida mi guarda, è stata in Europa e sa cosa significa Lampedusa e la sua storia. La portiamo con noi nel deserto e pensiamo a queste persone come vittime di uno stesso male. Mi ricorda una cara amica di Lampedusa, altra guida coraggiosa e instancabile.
Ho raccontato con tutta la voce che avevo quello che succede qui, troppe le similitudini, esseri umani resi criminali, confini militari, leggi che incatenano. Il confine tra Stati Uniti e Messico rimane sulla pelle di chi lo attraversa come accade qui. In qualche modo credo sia rimasto anche sulla mia. I confini ci accompagnano ovunque andiamo, come direbbe il teologo Paul Tillich. E nonostante la guerra e la violenza di un altrove arrivi nuovamente nella nostra Europa, sconvolgendoci, continuiamo a credere che la nostra sofferenza sia diversa, continuiamo a non capire da cosa scappi un pezzo di mondo intero, continuiamo a non voler vedere o a non sentirci responsabili.
Le prigioni, le catene, le frontiere le costruiamo così bene perché sono prima di tutto dentro di noi.