1 luglio 2015 – A Lampedusa si corre sempre d’estate, si corre e le giornate volano via veloci ed intense. L’isola quando si sveglia dal letargo invernale cambia pelle, cambia il tempo e tutto accelera. Questo è il tempo dell’isola che accoglie i turisti e per noi questo vuol dire avere più possibilità di dialogare.
Così, oltre ai videomaker, ai progettisti, ai fotoreporter e ai ricercatori che vengono a Lampedusa, ora ci sono anche loro, i turisti, che con la loro venuta cambiano volto all’isola. Spesso si fermano al molo davanti a noi, ci guardano portare dentro acqua e biscotti per i migranti che approdano e spesso rimangono spaesati. E lo spaesamento, lo stupore, non è dovuto a quello che vedono qui, ma alla distanza che percepiscono tra quello che sentono tutto l’anno in televisione e quella che è la realtà effettiva di Lampedusa. Una famiglia di Reggio Emilia attende che usciamo dal molo Favarolo dopo l’approdo della notte scorsa, ci ferma con fare gentile e ci chiede informazioni sui migranti. Gli raccontiamo quello che facciamo, le nostre storie viste e sentite di un’isola che affronta da sempre quello che la politica europea non riesce a gestire. Ci fanno domande, cercano di comprendere quello che accade e gli rispondiamo che partono in così tanti perché l’Africa l’abbiamo affamata con il debito da un lato, e sfruttando le sue risorse dall’altro. Rimangono interdetti quando gli diciamo che in trent’anni molti Paesi di quel continente hanno già pagato 12 volte l’ammontare dell’odioso debito al Fondo Monetario Internazionale e che dal 1991 ad oggi, di guerre tra Africa, Mediterraneo, Medio Oriente ce ne sono state una ogni due anni e mezzo. Li lasciamo passeggiare mentre si dirigono a vedere gli ultimi barconi appoggiati vicino al campo di calcio, chissà, ci diciamo tra noi, quando torneranno a casa o al lavoro cosa diranno ai loro cari, ai loro amici. Chissà se crederanno ancora alle informazioni distorte che danno in televisione. Ci sarebbe davvero bisogno per molti italiani di una educazione lampedusana, non solo perché l’isola è spaventosamente bella in questo periodo, ma perché molta della paura che trasmettono i media gli passerebbe al primo soffio di vento su questo meraviglioso scoglio. Riuscire a far capire cos’è la frontiera, la sua logica che crea separazione, il perché le persone partono e cosa succede poi a quanti prendono il mare, non è semplice, ci vorrebbe tempo, e noi oggi davvero non ne abbiamo perché giornate come queste riempiono ogni spazio. Questa mattina ci sono venuti a trovare una decina di turisti americani al nostro ufficio, anch’essi affamati di notizie, anche loro volevano comprendere cosa accade nell’isola. Parliamo con loro due ore, usiamo i disegni di Francesco, uno degli operatori di Mediterranean Hope, per comunicare meglio con loro, per raccontargli il nostro punto di vista, il progetto dei corridoi umanitari, l’idea di decostruire la frontiera. Gli diciamo che qui in Europa abbiamo imparato proprio dagli Stati Uniti la logica del confine, quello messicano del resto ha lo stesso filo spinato di Ceuta e Melilla. Anche loro fanno domande e alla fine escono con qualcosa in più, e proprio mentre ci stiamo salutando, quasi per caso, entrano due ragazzi somali che ci chiedono, come spesso accade, di cambiargli dei dollari. I turisti americani accettano, parlano inglese con loro e li vediamo sorridere insieme mentre tornano al centro del paese. Del resto in quest’isola tutti sono un po’ migranti, sia chi viene a rilassarsi sia chi transita nella ricerca di un mondo migliore. Giornate intense quelle di questi primi giorni di luglio, dove tutto vola via veloce e ti obbliga a stringere i tempi. I migranti che riescono a uscire per qualche ora dal Centro di primo soccorso e accoglienza vengono nell’ufficio di Mediterranean Hope, ci chiedono di usare internet, ci chiedono connessione, ci dicono che il loro sogno è arrivare in Germania o altrove, ci fanno vedere le loro foto e quelle delle loro giovani mogli. Queste poche ore da noi gli ridanno respiro, ascoltano musica su you tube e guardano le partite del Manchester United. Poveri e connessi. C’è da riflettere su questa metafora, quella di un continente povero che crede che dall’altra parte ci sia la terra promessa ma poi vede infrangere i propri sogni sul filo spianato di Melilla o sugli scogli di Ventimiglia. Chi arriva alla frontiera capisce subito che non sarà uno scherzo, il sistema di accoglienza li tratta come sacchi di patate, pochi sorrisi e molti ordini. Loro dovranno ripartire da capo, lo sanno, anche i social media si riazzerano, non si riesce nemmeno ad entrare in Facebook perché occorre reinserire la password avendo cambiato continente. Ma la password viene inviata per sms e loro il cellulare non ce l’hanno. Gli diamo il nostro telefono e quando scoprono che usiamo Viber gli si illuminano gli occhi. Finalmente c’è la soluzione che permette ai più poveri di questo mondo di connettersi, agganciandosi al Wi-Fi di Mediterranean Hope, e di chiamare la propria mamma che non si sente da due mesi o più. “Ciao Mamma, sono a Lampedusa” e le urla di gioia riempiono la stanza. “Eccola Lampedusa, sempre preoccupata e ansiosa, spaventata per il turismo, esposta al vento e alle contraddizioni di questo mondo”. Scriviamo questo veloce post sulla pagina Facebook dopo un approdo di un centinaio di profughi, un altro ce ne sarà tra due ore, tempo di un piatto veloce, di riprendere acqua e merendine e poi di nuovo al molo, a salutarli, a sorridergli e dirgli “welcome, you are in Lampedusa and good luck!”. Già, di fortuna questi ragazzi ne avranno davvero bisogno, in questo continente ricco di paura e ingiustizia il loro viaggio verso nord è appena iniziato.