Avevamo scritto questo articolo poche ore prima dell’attentato a Tunisi. In queste righe annunciavamo la nostra presenza al Forum Sociale Mondiale segnalandone l’importanza proprio perché ci permetteva di attraversare uno spazio pubblico nel quale convergono moltissime associazioni che operano nel Mediterraneo. Dopo l’attentato di ieri ci sentiamo ancora più in dovere di partecipare a questo appuntamento. Lo facciamo senza retoriche e con piena convinzione. In questo senso facciamo nostre le parole del comitato d’organizzazione del FSM (Forum Social Mondial) che richiama tutte le componenti del forum sociale mondiale a intensificare i loro sforzi in vista della mobilitazione per il successo della prossima sessione del FSM al fine di assicurare la vittoria della lotta civile e pacifica contro il terrorismo e il fanatismo religioso che minacciano la democrazia, la libertà, la tolleranza e il vivere insieme.
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Lampedusa, Agrigento, 18 marzo 2015 – Una complessità che necessita di una cornice superiore per trovare un punto di sintesi, questa è la sensazione che abbiamo provato ieri e oggi sentendo gli interventi che si sono susseguiti al convegno di Mediterranean Hope a Scicli, dal titolo “Cosa ci insegna il Mediterraneo”. Tra le sponde di questo mare divenuto frontiera mobile negli ultimi decenni, si sommano ogni giorno innumerevoli contraddizioni politiche, economiche e culturali che attraversano questo spazio, integrandosi o scontrandosi, spinte da una modernità che velocizza i tempi degli eventi come mai è avvenuto nella storia dell’umanità. Se emerge un tema comune negli interventi di questo convegno, è senza dubbio il bisogno di ritrovare una visione a lungo termine, per uscire dal vortice dell’emergenza che cerca costantemente di costruire un confine culturale inattraversabile tra “noi” e “loro”. Le culture, però, non sono fisse nella storia, sono in perenne mutamento in quanto prodotto umano e le categorizzazioni servono a poco per comprendere il fenomeno migratorio in profondità.
Oltre a una visione a lungo termine, allora, occorre lavorare sulle sfumature, sugli attraversamenti, sul viaggio come metafora del cambiamento soggettivo e del contesto stesso.
Se c’è una cosa, quindi, che ci insegna il Mediterraneo è che l’umanità tutta si trova oggi di fronte ad un fenomeno epocale dentro il quale milioni di persone, nei prossimi decenni, lasceranno la propria terra. Che questo sia dovuto al susseguirsi delle guerre che dalla Jugoslavia in poi, sino alla Siria, hanno tracciato nuove mappe e nuove rotte di fuga, o per l’aumento della popolazione giovanile disoccupata, poco importa. Di certo non è Mare Nostrum la causa dell’acuirsi delle migrazioni ma sono, invece, cause strutturali con profonde radici nella storia.
No, non è semplice trovare una via maestra per affrontare gli anni che verranno, anche perché la crisi economica che vive l’Europa cambia il volto delle migrazioni, i flussi, le loro composizioni e riporta il vecchio continente indietro nella storia. Le ultime notizie che sentiamo sono che i governi europei, cancellato Mare Nostrum, cercheranno prima di stabilizzare la Libia e poi, sempre che questo riesca, di spostare a sud la frontiera, dialogando pragmaticamente con tutti gli Stati, anche con le dittature. L’Italia, che è in mezzo a queste due sponde, assorbirà le contraddizioni maggiori cercando di gestire la vicenda con interpretazioni differenti, come del resto spesso è avvenuto in questi mesi. Salviamo i profughi ma abbiamo un sistema di accoglienza che da decenni è incapace di programmazione e che molto spesso toglie la dignità alle persone che lo attraversano. Un sistema dove non mancano le speculazioni. L’Europa stessa, che ci condanna perché non accogliamo con dignità i profughi, non è capace di riconoscere a loro la libertà di movimento, rinchiudendoli nella gabbia del trattato di Dublino. Ma il vero limite della politica europea consiste nel rinviare una discussione seria rispetto all’apertura dei canali umanitari, nell’incapacità di porre il tema del diritto di asilo dei profughi e richiedenti asilo in una cornice globale.
Scendere a Lampedusa dopo queste giornate di approfondimento, per poi andare al Forum sociale di Tunisi, ci sembra un viaggio doveroso da fare, una tappa di un percorso che non si ferma al presente ma cerca di andare a fondo, riflettendo sulle cause e le conseguenze delle migrazioni. Un percorso da fare anche per smontare simbolicamente il palcoscenico dell’emergenza, per ridare all’isola di Lampedusa e ai suoi abitanti la voce che non hanno mai avuto.
Per la prima volta, a Tunisi, avremo modo di parlare in uno spazio pubblico aperto, dove contano più i processi in atto che le categorie. Incontreremo attivisti e associazioni della sponda sud del Mediterraneo per cercare di trovare un linguaggio comune oltre alle giuste risposte da costruire insieme.